La premessa è sempre la stessa: stiamo per assistere a degli eventi realmente accaduti in Minnesota, questa volta nel 1979. «Su richiesta dei sopravvissuti i nomi sono stati cambiati. Per rispetto dei morti, i fatti vengono raccontati come avvennero». Questo era il disclaimer che apriva il capolavoro dei fratelli Coen del 1996 e ambientato nel 1987, Fargo, che in diversi contesti temporali dá inizio anche alla serie tv omonima ideata da Noah Hawley e prodotta dagli stessi fratelli registi, giunta alla sua seconda stagione – in onda dal 22 dicembre su Sky Atlantic – con i primi due episodi presentati alla Festa del cinema di Roma.

 
Delle immagini di un finto film d’epoca ci mostrano la ricostruzione del campo di battaglia di Sioux Falls; un attore fuma una sigaretta mentre insieme al regista aspetta che «Ronnie» Reagan, l’attore poi diventato presidente degli Stati uniti, sia pronto per iniziare a girare.

 
Poi veniamo catapultati nell’epoca in cui questa stagione di Fargo avrà luogo: il 1979 appunto, in cui facciamo la conoscenza di una famiglia di criminali di Luverne alle prese con il fratello scemo, Rye, che trama con un negoziante per riuscire a mettere insieme abbastanza soldi da investire in un nuovissimo modello di macchine da scrivere con cui spera di arricchirsi. Nel tentativo di intimidire una giudice, Rye finisce per fare una strage in una tavola calda, e da qui avrà inizio l’investigazione del giovane agente Lou Solverson, padre di quella Molly Solverson protagonista della prima stagione di Fargo. Ci sono molti modi in cui il Fargo televisivo rende omaggio al film a cui è ispirato, e il più ovvio è quello della connessione delle trame: non sappiamo ancora come questa stagione si ricollegherà all’originale, ma nella prima l’improvvisa ricchezza di uno dei protagonisti nasceva proprio dal ritrovamento della valigetta zeppa di dollari seppellita tra le nevi dal killer interpretato da Steve Buscemi nel film del ’96. Altrettanto importante è il continuo gioco di citazioni non solo di Fargo ma di tutta la cinematografia dei Coen: dal killer Lorne Malvo diretta filiazione dello spietato Anton Chigurh di Non è un paese per vecchi alle macchine da scrivere bramate da Rye, che fanno il verso all’investimento nel lavaggio a secco che porta alla rovina il barbiere protagonista di L’uomo che non c’era.

 
Ma il tributo più importante è proprio la fedeltà allo spirito del film originale: l’indagine dell’ «idiozia del male», che prende la forma di efferati crimini grotteschi in bilico costante tra la comicità e la tragedia. La strage di Rye è come il complicato progetto del Jerry Lundegaard del film, che faceva rapire la moglie per intascare il riscatto pagato dal padre di lei, o come l’eccesso d’ira del mediocre Lester Nygaard che nella prima stagione uccideva a martellate l’odiosa consorte.
È da sempre un convincimento dei fratelli Coen che un crimine, anche il più terribile, visto da una certa prospettiva possa diventare commedia, e contenga sempre in se un risvolto comico. E a questa poetica sono fedeli anche gli sceneggiatori della serie, che registrano quest’improvvisa eruzione del male nella provincia innevata del Minnesota rigorosamente dal punto di vista del genere, dei personaggi e non delle persone.

 
Proprio il genere è un altro importante caposaldo delle storie dei Coen, che infatti nei titoli di coda di Fargo – come in quelli che chiudono la serie tv – inserivano il consueto annuncio per cui i fatti raccontati sono di pura invenzione, contraddicendo quanto avevano detto in principio e prendendosi gioco dello spettatore che fino ad allora si era illuso di assistere a qualcosa di realmente accaduto, pensando magari tra sè che tutto quel ridicolo male non fosse in fondo così inverosimile.