Sono passati sette anni dall’inizio della crisi economico-finanziaria più grave dal secondo dopoguerra ad oggi. È tempo di bilanci. Ma poiché il periodo di crisi è lungi dall’essere superato, tali bilanci sono necessariamente provvisori.
Tra questi, degno di nota è sicuramente quello di Ben S. Bernanke, governatore della Federal Reserve Usa (Fed), proprio durante il periodo caldo della crisi e sostituito alla guida della Banca Centrale Statunitense a partire dal 6 gennaio 2014 da Janet L. Yallen, già sua vice dall’ottobre 2010. Si tratta di quattro seminari tenuti alla George Washington University nel marzo del 2012, i cui video sono disponibili al sito ufficiale: http://www.federalreserve.gov/new sevents/lectures/about.htm e la cui versione scritta è ora disponibile in italiano nel volume La Federal Reserve e la crisi finanziaria (Il Saggiatore, trad. di Adele Olivieri, pp. 175, euro 16).
Con un linguaggio semplice e chiaro, nel primo seminario, Bernanke descrive il ruolo della Banca Centrale e i suoi obiettivi. Nel secondo, la formazione da storico economico (Bernanke ha scritto infatti un libro sulla Grande Depressione degli anni Trenta) prende il sopravvento, quando l’ex governatore descrive la crisi del ’29-30, gli errori dell’allora Fed, le decisioni politiche-economiche (New Deal) che ne hanno consentito la fuoriuscita (unitamente all’impegno militare Usa nella seconda guerra mondiale, aggiungeremmo noi) e il suo ruolo nella crescita economica del dopoguerra.

Dopo il panico
Negli ultimi due seminari, si analizzano le cause dell’attuale crisi finanziaria e le sue conseguenze sul sistema economico globale. Al riguardo, nella lezione finale, ci si sofferma sull’analisi di come il ruolo della Fed sia stato decisivo a sventare la minaccia di un tracollo finanziario, soprattutto nel biennio 2009-10.

La tesi principale di Bernanke, come è anche riportato nella IV di copertina, è che: «Gli Stati Uniti hanno scongiurato il collasso finanziario e hanno imboccato la via della ripresa». Grazie soprattutto all’operato della Federal Reserve.
Il compito delle Banche Centrali è duplice: da un lato, «perseguire la stabilità macroeconomica, ossia una crescita regolare dell’economia, evitando ampie fluttuazioni e mantenendo un’inflazione moderata e stabile», dall’altro, «promuovere la stabilità finanziaria…, in particolare puntando a scongiurare le crisi e le ondate di panico o, quantomeno, mitigarne gli effetti». Se nella crisi del ’29-30, l’intervento della Fed era stato meno pronto e comunque inadeguato a contrastare l’ondata di panico e a essere presente come prestatore di ultima istanza, nella crisi del 2008-9 tali errori non si sono ripetuti.

Sulla base di questo assunto, Bernanke giustifica così l’interventismo immediato della Fed all’indomani del fallimento della Lehmann Brothers. Un interventismo (accusato da destra di statalismo) che si è fondato su un doppio pilastro. Nell’immediato, si è proceduto all’acquisto dei titoli in caduta libera e all’erogazione di prestiti alle principali società finanziarie che erano sull’orlo del fallimento: ci riferiamo in particolare al colosso assicurativo Aig (un prestito federale di circa 40 mld di dollari) e alla nazionalizzazione di fatto delle due società parzialmente pubbliche (GSE, Government-Sponsored Enterprise) Fannie Mae e Freddie Mac, le due finanziarie principalmente coinvolte nel crollo dei subprime. Nel medio termine, la Fed ha invece intrapreso una politica di quantitative easing, finalizzata a garantire la necessaria liquidità per il sostentamento e la ripresa dei mercati finanziari.

Bernanke dedica alcune pagine a giustificare questi interventi che rompono con l’ortodossia neoliberale e monetarista, sia affermando che non vi era alternativa visto la gravità della crisi, sia mostrando come il ruolo di prestatore di ultima istanza non abbia influito in maniera determinante sul debito pubblico Usa (quasi raddoppiato negli anni della crisi), in quanto tutti prestiti erogati sono stati poco alla volta rimborsati sino all’ultimo dollaro. E anche le quote societarie private acquistate dallo Stato sono state successivamente rivendute sul mercato privato (vedi, ad esempio, il caso Chrysler).

Obiettivo della politica della Fed non è mai stato quello di sostituirsi al mercato privato e al libero scambio, ma piuttosto ribadirne il primato, in una fase congiunturale dove lo stesso mercato privato aveva dimostrato una sua inefficienza, a prezzo di costi sociali (in termini di disoccupazione e stagnazione dei redditi). Bernanke si sofferma sul ruolo positivo, ma transitorio e anticiclico, della politica monetaria, per ribadire che – in ogni caso – la Banca Centrale è ancora in grado di indirizzare e governare i mercati finanziari.

Qui sta il punto principale. È proprio vero che le Banche Centrali sono ancora in grado di controllare i mercati finanziari? O questa è un’illusione superficiale, sotto la quale si nasconde una realtà assai diversa? Bernanke mette a confronto la mancata risposta della Fed (soprattutto come prestatore di ultima istanza) nella Grande Depressione con il positivo intervento del 2009. Implicitamente si suppone che il ruolo dei mkt finanziari sia rimasto più o meno lo stesso: semplice riallocazione di risparmio (ovvero moneta già in circolazione nel sistema economico) dalle famiglie alle imprese e allo Stato. Ma nel bio-capitalismo cognitivo e finanziarizzato non è più così, o almeno, non è più solo così.
Oggi i mkt finanziari giocano un ruolo di ben altro spessore: sono fonte di finanziamento dell’attività innovativa tramite le plusvalenze, sostituisco sempre più il welfare pubblico con forme (private) di sicurezza sociale favorendo processi di governance debitoria che aumentano in modo nuovo la sussunzione del lavoro al capitale, mettono in moto un moltiplicatore finanziario assai distorto che, sostituendo in parte quello tradizionale keynesiano (agito dal deficit spending), influenza la domanda aggregata ma favorendo la polarizzazione dei redditi. In altre parole, i mkt finanziari oggi dettano la governance del capitalismo contemporaneo e non svolgono più quel ruolo marginale (seppur fondamentale) dell’epoca fordista, funzionale alla realizzazione monetaria del profitto.

In un simile contesto, la governance istituzionale (banca centrale e governo) tende ad essere subordinata alla dinamica degli mkt finanziari. Una dinamica che sempre più dipende dallo sviluppo delle convenzioni finanziarie, sulla base di un poderoso processo di concentrazione che oggi si fonda sul controllo dei flussi finanziari e non più sulla proprietà effettiva dei titoli.

Flussi e riflussi
Ne consegue che la politica monetaria viene decisa in funzione delle traiettorie speculative che le oligarchie finanziarie autonomamente perseguono. Le Banche Centrali (anche la Fed) non può far altro che assecondare passivamente tali dinamiche, pena il rischio di aumentare un’instabilità che è già, di per se stessa, sistemica e strutturale. La Fed, da questo punto di vista, a differenza della Bce (che ha scontato per ragioni geopolitiche e di ottusità ideologica un ritardo che oggi paghiamo nel seguirne le orme), è stata abile non tanto a controllare e a indirizzare i mercati finanziari ma piuttosto a assecondarli.

Non è un caso che appena ha cercato di liberarsi da questa dipendenza (come è successo nell’estate scorsa quando il direttorio Fed ha manifestato l’intenzione di ridurre drasticamente l’iniezione di liquidità – tapering), la risposta del potere finanziario è stata tale da sconsigliarne l’applicazione, almeno fintanto che la creazione di nuova liquidità non trovava una nuova fonte. È in parte ciò che sta accadendo oggi con l’aumento di flussi di capitale internazionale verso gli Usa, a seguito delle tensioni valutarie che si sono verificate nell’ultimo anno: a riprova che la stabilità finanziaria è ben lungi dall’essere assicurata.