Lo scorso 19 giugno l’isola madre dell’arcipelago di Okinawa è stata teatro di una delle proteste più vaste e veementi che si siano verificate nel territorio negli ultimi anni. Migliaia di persone hanno infatti manifestato la loro rabbia per lo stupro e l’uccisione di una donna del luogo da parte di un militare della base americana presente sull’isola, solo l’ultimo purtroppo di una lunga serie di incidenti.
La zona sta infatti diventando sempre più un ordigno socio-politico pronto a esplodere da un momento all’altro, e non solo per i problemi con la presenza americana: il vaso di Pandora che contiene moltissimi dei problemi del Giappone e dell’estremo Oriente in generale.

L’isola di Okinawa e la prefettura omonima, con tutte le piccole e grandi isole che la compongono, rappresenta una zona borderline fin dalla sua annessione all’Impero giapponese durante la Restaurazione Meiji. È uno spazio psico-geografico, con cui il Giappone e gran parte della sua popolazione si rapportano continuamente. Okinawa rappresenta un limite geografico, mentale e storico che è necessario allo Stato giapponese per la sua esistenza. È suo malgrado un luogo privilegiato, dove – sia per la sua storia che per il suo essere una zona di «soglie identitarie» – tutte le faglie geopolitiche che attraversano la parte estremo orientale del continente asiatico sono più evidenti.

Sempre lo scorso giugno, ma questa volta a Kyoto – l’antica capitale dell’arcipelago – si è svolto un evento speciale nel corso di una manifestazione dell’Association for Asian Studies: Islands – Across and Between, all’interno del quale sono stati proiettati dei lavori che hanno proprio Okinawa, Taiwan e le zone circostanti, con i loro ondivaghi confini identitari, come oggetto della ricerca principale.
Tra le altre sono state presentate delle opere video realizzate da Chikako Yamashiro, nata e residente a Okinawa: i suoi sono lavori sperimentali e opere di video arte realizzati tra il 2004 e il 2016, e con cui l’artista trasferisce in immagini la complessità del vivere ed essere parte di Okinawa.                                      

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Benché molto interessanti, il clou della giornata, almeno per chi scrive, è stata la proiezione di Asia is One, documentario realizzato dal collettivo Ndu (Nihon Documentary Union) nel 1973. Pressoché sconosciuto tanto in patria quanto all’estero, il gruppo si formò nel 1968 quando i suoi componenti erano studenti della prestigiosa università di Waseda, che poi avrebbero abbandonato. Il loro collettivo ebbe una vita di cinque anni – si sciolse infatti proprio nel 1973 – durante i quali realizzò cinque documentari. Lavori che da Onikko – A Record of the Struggle of Youth Laborers del 1968 fino all’ultimo, Asia is One appunto, tracciano una mappa delle faglie storiche che attraversano l’estremo oriente e le complesse derive identitarie in gioco ancora oggi nella zona.

Il loro penultimo lavoro, Motoshinkakarannu (1971), è girato a Okinawa prima del suo «ritorno» al Giappone ed esplora i margini di una società in profondo cambiamento e travaglio: la prostituzione illegale, la vita nei quartieri rossi, ma anche le lotte nelle strade, le proteste anti-americane, i disastri ecologici e alcuni membri delle Black Panther presenti nell’isola. Asia is One invece continua e spinge al massimo questo movimento di perforazione dei confini, fisici e mentali. Spostandosi tra le isole minori dell’arcipelago di Okinawa, Asia is One getta il suo sguardo sugli immigrati taiwanesi impiegati nei lavori più duri come quelli nelle miniere dell’isola di Iriomote. Il collettivo travalica anche i confini e illegalmente arriva fino a Taiwan, dove scopre e filma gli abitanti di un villaggio, una tribù autoctona colonizzata dall’impero giapponese durante l’espansione militaristica e «costretta» a combattere per il Sol Levante durante la guerra del Pacifico.

Da un punto di vista formale questo documentario, come il precedente Motoshinkakarannu, è assai libero, composto cioè da paesaggi e dalle voci fuori sincrono delle persone intervistate, con un montaggio e una progressione che sembrano essere quasi casuali, dettati solo dagli eventi senza avere un filo conduttore, una struttura concettuale da seguire.
Proprio questa è la caratteristica più peculiare del collettivo: profonda anarchia e caos sono per Ndu le linee guida con cui esprimersi e catturare il presente nel suo evolversi; una scelta programmatica che emerge fin dagli inizi negli scritti con cui i membri del gruppo parteciparono al discorso cinematografico giapponese. Scopo del Ndu era quello di arrivare ad un «cinema anonimo» con cui cercare di avvicinarsi ad uno «spazio impersonale», rifiutando cioè categoricamente lo stesso concetto di «opera» e di «lavoro» in quanto portatori di altri valori. Ogni qual volta abbiamo un’opera abbiamo anche una persona che definiamo autore: a quest’idea il gruppo cercava di opporre qualcosa di più orizzontale e fluido, un cinema-attivismo fatto da non-professionisti e più legato al momento presente.

Senza dubbio la parte più interessante di Asia is One sono le immagini del villaggio Atayal a Taiwan: oltre agli stupendi primi piani dei visi antichi dei membri della tribù, è qui che il discorso politico e identitario si fa più stratificato. Gli Atayal hanno conosciuto il giogo «straniero» fin dal 1600, quando furono colonizzati prima dagli olandesi e poi nei secoli successivi dagli spagnoli, dai cinesi ed infine dai giapponesi, e questi ultimi cercarono di annientare la loro cultura e di assimilarli all’impero del Sol Levante.
Ma le parole catturate dal film ci danno un quadro molto più ampio e complicato: l’assimilazione viene considerata con orrore, ma allo stesso tempo è ancora presente il desiderio di combattere per il Giappone e la sua lingua, ed è presente un senso di «gratitudine» per aver elimnato alcune usanza «barbariche» come la decapitazione.

C’è stata violenza fisica e culturale, su questo non ci sono dubbi, come succede purtroppo in ogni colonizzazione, ma il processo di penetrazione culturale e storica espresso nei documentari del Ndu ci dice anche altro. Prima di tutto individua una struttura ricorrente dove il centro, qualunque esso sia, tende a sfruttare costantemente i margini e chi vi si trova. In Giappone sono gli abitanti provenienti da Okinawa, a Okinawa sono le persone delle altre isole minori ed in queste ultime, a loro volta, a essere sfruttati sono i taiwanesi, i coreani e così via.
In secondo luogo, e in modo più sottile, il percorso del collettivo che si conclude con il loro ultimo film, Asia is One, porta alla luce la farsa del concetto di identità, un «errore» che proprio in queste zone di mare popolate di moltitudini, in cui lo spazio umano è così fluido e di così difficile categorizzazione, emerge in tutta la sua pochezza. Come è stato ripetuto più volte dopo la proiezione dall’unico membro ancora in vita del collettivo, Osamu Inoue, «l’identità era il concetto più odiato dal nostro gruppo, identità è un concetto che strozza». Asia, allora, is not One.