Lima, città enorme, lavori in corso, traffico, impazienza dei clacson, manifesti per le elezioni presidenziali di aprile. In uno scenario di rinnovamento urbano e museale ha spazio anche la sperimentazione fra cinema e ultime tecnologie, con autori e artisti che spesso si muovono fra Sudamerica ed Europa (e non solo) ma anche nei territori di diverse arti. “Transcinema, festival internacional de no ficción” mostra le forme del cinema non narrativo e sperimentale; scuole e accademie producono lavori ad alto tasso innovativo, come alla Escuela de Bellas Artes, dove insegna Angie Bonino, artista peruviana di rilievo internazionale e pioniera dei “nuovi media” in Perù. Laura Baigorri (Università di Barcellona) ha curato nel 2008 un libro assai ricco su questo scenario, Video en Latinoamerica. Una historia critica, con contributi di molti autori sudamericani. Una risposta documentata alla dimenticanza di questa storia nelle storie del video. Echi e dialoghi fra continenti, iniziative e progetti comuni. In questo scenario svolge un ruolo attivo ATA, “Alta Tecnologia Andina”, associazione fra arte e tecnologia, anche a livello internazionale. José Carlos Mariátegui, il suo fondatore , ha dato vita nel 1998 a un Festival di video e di arti elettroniche a Lima (fino al 2003) e – con intellettuali e professionisti di varia provenienza disciplinare – ha promosso ricerche e ricognizioni sulla produzione indipendente, anche con l’organizzazione di mostre e rassegne: fra le tante, “Videografías invisibles. Una selección de videoarte latinoamericano 2000-2005” e “Emergentes”, esposizione itinerante dedicata ad artisti sudamericani che dalla Spagna è passata in Argentina, Brasile, Cile, Colombia, Messico e Perù. Mariátegui, master e dottorato a Londra, è il nipote del grande studioso e intellettuale marxista, fondatore del partito socialista (poi comunista) peruviano, autore dei 7 ensayos de interpretación de la realidad peruana (1928), testo fondamentale, più volte ripubblicato e diffuso capillarmente. Nella formazione del nipote si fondono cultura umanistica e scientifica ma anche sensibilità all’impegno civile, politico e sociale, e consapevolezza storica: eredità morale del grande nonno, nei cui ricordi ci si imbatte spesso a Lima, non solo per la Casa Museo a lui dedicata.

Ed è l’ATA che ha ideato e organizzato, al MAC, Museo de Arte contemporáneo, con la Casa Totiana (Roma) e con l’apporto dell’Istituto Italiano di Cultura di Lima, la retrospettiva “Poetrónico: Gianni Toti y los orígenes de la videopoesía” (23 ottobre 2015-12 gennaio 2016), la prima in Sudamerica dedicata a questo artista (poi spostata e ora in corso nei suggestivi spazi della “Casa de la Literatura Peruana”, nell’antica stazione ferroviaria). I lavori del poeta e videoartista italiano, da sempre attento alla storia e alla cultura del Sudamerica, sono stati sottotitolati in spagnolo e presentati su schermi piatti, con sedie e cuffie per una fruizione individuale: ma anche con grandi proiezioni, a rotazione, su una parete del museo. Curata la scenografia, con i neologismi totiani a decorare i muri e, alla Casa de la Literatura, con una sorta di cosmogonia dei riferimenti culturali. Del resto uno degli ultimi videopoemi realizzati da Toti in Francia era stato proprio Gramsciategui, ou les poésimistes (1999), seconda opera della trilogia degli olocausti, dedicata al “Gramsci dell’America Latina” ovvero proprio a José Carlos Mariátegui –vecchie foto e rari film ci mostrano nel video i due grandi pensatori, in dialogo creativo con le simbologie Maya, con allegorie, con la rielaborazione di immagini della colonizzazione e dello sterminio. Significativo che un Museo di arte contemporanea abbia accolto la mostra: del resto anche il ben più grande MALI (Museo de Arte di Lima) espone, accanto all’arte precolombiana e all’arte coloniale, mostre di fotografia – splendida quella dedicata recentemente a Martín Chambi – e, nelle sezioni dell’arte antica, opere (di Rafael Besaccia) decisamente “videoartistiche” che in qualche modo ne rileggono simbologie e motivi formali. Lo scenario video peruviano – in un incontro organizzato da Reina Jara, dell’ATA, in chiusura della mostra su Toti – esprime una gran varietà di aspetti e di approcci. Diego Lama rilegge le avanguardie, fra Duchamp e Bataille, ed elabora la precarietà fragile del linguaggio. E non mancano riferimenti alla situazione del paese (J.L. Chamorro), o di ”informazione contro-egemonica”, come in Jesed Mateo. Altri autori e varie autrici incontrati a Lima si muovono nel territorio dell’installazione e dell’arte cinetica (Juan Salas), della grafica e dell’animazione- si segnala il festival “VideoBabel” a Cuzco – (Jimy Cristobal, Martín Aramburú, Eliana Otta), della performance (Antonio Paucar, Janine Soelens, Natalie Caballero). O lavorano sulla nozione di identità, sul corpo, sulla comunicazione difficile (Maricel Delgado), e spesso in dialogo con la vivace scena musicale limeña, narrata in Lima grita (2015), di Dana Bonilla e Ximena Valdivia; mentre Natalia Rojas Gamarra (produttrice, con la sua società Yurak Yana) si muove fra il videomusicale e memorie di famiglia e Alonso Depaz si avventura nella fiction sperimentale. Come nel resto del mondo, vari autori e autrici scavalcano gli steccati fra pittura, fotografia, video e installazioni (come Katherine Fiedler). Fecondi i cortocircuiti fra avanguardia e tradizione: oltre a Besaccia, coi video esposti al museo d’arte nella sezione “precolombina” , anche Alan Poma, musicista e videoartista, si muove in questa direzione con il video e lo spettacolo multimediale La victoria sobre el sol, rivisitato un secolo dopo l’originaria e omonima pièce del 1913 del futurismo russo (fra lo Zaùm, il linguaggio transmentale di Chlébnikov e le scenografie e i costumi di Malevich siamo ancora in uno dei territori amati da Gianni Toti): astratto, cosmico, con una composizione complessa che crea risonanze fra lo Zaùm e le musicalità della lingua quechua, muchik e puquina.

Il LUM, luogo della memoria, fra documenti, video e installazioni

Inaugurato a Lima il 17 dicembre 2015 il LUM (“Lugar de la memoria, la tolerancia y la inclusión social”) è un grande edificio grigio, modernissimo, una fortezza aperta sull’oceano. Ci sono voluti 10 anni per metterne a punto la concezione e infine per costruirlo. Materiale sensibile, controverso, che ha comportato un percorso doloroso: racconta infatti la guerra (o il “conflitto interno armato”) che dal 1980 al 2000 ha insanguinato il Perù con decine di migliaia di morti. Lavoro delicato già nel campo minato delle parole: al termine terrorismo si è preferito quello di “violenza” o di “violenze”, intendendole da ambo le parti, Sendero Luminoso e MRTA (Movimiento Revolucionario Túpac Amaru), l’esercito, il governo, la polizia. Dalla grande terrazza del LUM si vede l’isoletta nel cui carcere sono detenuti sia Abimael Guzmán, il leader di Sendero Luminoso, che Alberto Fujimori (presidente del Perù dal 1990 al 2000) il quale com’è noto è stato condannato per crimini contro l’umanità oltre che per corruzione (la figlia è candidata alle prossime elezioni presidenziali). Il LUM raccoglie documenti, cronologie, immagini, installazioni. “Un luogo per capire”, lo definisce Mario Vargas Llosa nella introduzione al volume che illustra il LUM. “Una memoria in costruzione”, scrivono i curatori, fra cui Jorge Villacorta, importante intellettuale peruviano, curatore di mostre in tutto il mondo, che mi accompagna attraverso queste sale. Già nel 2003 un’ importante esposizione fotografica, a Lima, intitolata Yuyanapaq (“per ricordare”, in lingua quechua) aveva ricostruito per immagini, anche inedite, il lungo conflitto. Il LUM sembra aver raccolto quel segnale, amplificandolo e accompagnandosi al lavoro della “Commissione per la verità e la riconciliazione” che nel corso di molti anni ha condotto a importanti accertamenti, delicati confronti, ferme autocritiche, come quelle da parte di esercito e polizia le cui ammissioni sono esposte in uno dei pannelli all’ultimo piano, cui sono anche riservati spazi per attività formative e per esposizioni temporanee (molte anche le attività collaterali).

Nella prima parte, agli ambienti dedicati alla documentazione – in cui hanno grande rilievo gli eccidi e le violenze che terrorizzarono e devastarono in particolare tanti villaggi – seguono stanze dedicate ad aspetti specifici, come le testimonianze sulle violenze sessuali; un patchwork di tessuti ricamati da donne assembla bandiere e avvisi, attestando la protesta e l’impegno della memoria. Ma ci sono altri spazi di grande suggestione, in cui la dimensione emozionale, attraverso il video e le installazioni, chiama in causa direttamente il visitatore: come nella sala “Una persona, todas las personas”. Hector Mata, l’autore dei video qui presentati, è stato giornalista a Lima e poi fotoreporter in vari paesi del mondo (dalla Russia all’Africa al Medio Oriente alla Francia agli USA), con un’attenzione per il cinema , studiato e praticato all’UCLA qualche anno fa. Ma ha anche realizzato la mostra “Limbo”, frutto di un viaggio fra Stati Uniti e Messico, fatta di foto e di oggetti trovati nel deserto (Los Angeles Center for Digital Art, 2009). Ed è come artista con sensibilità audiovisiva e fotografica che Mata ha realizzato per questa sala una serie di ritratti video a grandezza naturale, su schermi piatti posti in verticale ad altezza di visitatore. Di spalle, o di fianco, mirabilmente illuminati, 18 personaggi si voltano verso di noi, “vivono” allo sfiorare del nostro tocco e iniziano a raccontarci la propria storia, ascoltata in cuffia: storie di dolore e di perdita, narrate da protagonisti e da vittime reali (di cui a parte un pannello informativo ci illustra nomi e breve profilo). Una rappresentazione accurata che, così mi racconta, condensa visivamente il risultato di un precedente lavoro fatto da coloro che hanno coltivato per circa due anni la raccolta delle testimonianze, entrando in intimità con queste persone, in una serie di riunioni culminate poi nelle riprese per questa sala. Hector Mata conosce e apprezza il lavoro di Bill Viola e certo queste figure dolenti che accettano di raccontarci la propria storia ne riecheggiano alcuni tratti stilistici: con la differenza che qui si tratta di storie, di storie vere, di parole, insieme ai volti e alle iconografie del pathos, un pathos espresso con una composta serenità e con una dignitosa consapevolezza.

Così come al LUM reale è la terra che attornia lo spazio dedicato a informarci sulle esumazioni che hanno rivelato eccidi letteralmente sepolti nell’oblio, e come lo sono gli oggetti nella sezione dedicata ai desaparecidos: il piccolo padiglione ha pareti di plexiglas che contengono e rivelano piccoli oggetti quotidiani, o indumenti ripiegati con cura nelle caselle trasparenti. All’interno, un’ installazione sonora con le testimonianze sulle persone scomparse, e al centro una grande scatola, ancora trasparente, che contiene tanti piccolissimi quaderni dai colori delicati: sulla copertina solo il nome e la data di nascita della persona scomparsa. Nelle pagine, qualche foto della sua casa, della famiglia, dei vestiti nell’armadio; o di un documento di identità, di una tessera, di una passeggiata, di un matrimonio. Infine una biografia con le circostanze della scomparsa, un ritratto. Questi piccolissimi quaderni sono per il visitatore, che può prenderne in dono uno, o più di uno, portando con sé una memoria degli scomparsi. Commozione e partecipazione, insieme al ragionamento su quanto accadde. Impegno civile e documenti in dialogo con l’arte contemporanea e con la videoarte, per modi sensibili di conoscenza e di empatia.