Di fronte alle vedute filmiche di Peter Hutton, morto la scorsa domenica, a settantuno anni, studente di belle arti a San Francisco, marinaio, fino ai primi anni Settanta sui Grandi Laghi a bordo dei battelli mercantili, e infine filmmaker/viaggiatore poetico e contemplativo col sogno, purtroppo irrealizzato, di tornare alla pittura – «A volte penso che un giorno ricomincerò a dipingere, e la fine del cinema sta accelerando questo processo» – mi tornano a mente suggestioni sparse del percorso di Gianni Celati. E in particolare un film come Visioni di case che crollano (2003) in cui si esplora un tema assai caro al regista di Three Landscapes (2013): l’uso del tempo.

 

 

Per Celati il cinema dovrebbe riuscire a far vedere il tempo che lavora dentro l’immagine, la durata della visione; i film di Hutton sembrano essere la puntuale realizzazione di questo desiderio, come ci dicono, del resto, le parole che lo stesso regista ha adoperato per raccontare i propri lavori: «I lenti procedimenti degli agricoltori nella valle dell’Hudson sono davvero interessanti da osservare, e credo sia necessario documentare quel senso agricolo del tempo. Il tempo quasi si ferma; spesso le nuvole si muovono più veloci dei lavoratori. È cinematografico tutto questo? La lentezza mi sembra quasi una rivelazione».

 

 

Hutton, da molti considerato un «ritrattista in pellicola» di città e paesaggi, ha sempre girato rigorosamente senza suono, trasformando, attraverso l’uso anacronistico della pellicola l’osservazione dello spazio in una meditazione poetica che sembra trovare riverbero nelle pagine di Verso la foce, uno dei libri più belli degli anni Ottanta, scritto da Celati lungo gli itinerari che portano al delta del Po come una sorta di lode al mondo per quello che è. E ancora una volta sono le dichiarazioni di Hutton a dare sostanza a questa impressione: «La valle dell’Hudson è il luogo dove abito. D’estate la bellezza del paesaggio non finisce di stupirmi. I prati verdi e asciutti, dove le balle di fieno gettano lunghe ombre all’ora più magica della giornata. Le nuvole che si addensano sui monti Catskill, immensi cumuli temporaleschi, sono incredibili ed evocano i sogni».

 

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Il paesaggio padano colto dall’occhio di Celati, dove la campagna si confonde nella periferia urbana, ritratto della postmodernità incipiente, assomiglia a quello osservato da Hutton, che a riguardo disse: «Sono sempre passato da progetti dedicati alla città a progetti dedicati alla campagna, e sono convinto che esse siano collegate in molti modi. È ironico vedere come negli odierni spazi urbani in sfacelo, per esempio Detroit, la città venga invasa dalla campagna». Three Landscapes, in questo senso, con i suoi resti di archeologie industriali che affiorano dal brulichio della natura, è documento che attesta la catastrofe avvenuta in modo silenzioso.

 

 

 

 

A farmi rassomigliare Hutton e Celati, a rendermeli, seppur lontani, così vicini è anche il loro modo di occupare una posizione eccentrica rispetto al contesto, laterale, che gli fa adottare una visione anti-antropocentrica; soggetti che non sono più padroni delle cose, ma che, a loro volta, sono come dei luoghi, dei punti attraverso cui passano immagini. Non c’è un soggetto-corpo che si getta nello spazio per riempirlo, ma un soggetto-corpo che si lascia riempire dallo spazio (Quando guardi un’immagine – affermava Hutton – c’è come la sensazione che tu voglia controllarla e comporne gli elementi, in un certo senso vuoi metterle una cornice intorno, come la gente ancora fa con le fotografie»).

 

 

Le immagini dei film di Hutton è come se fossero osservate da un io-medium attraverso cui passano delle percezioni del mondo: un soggetto dilatato e svuotato dei suoi connotati classici, un soggetto che registra un’esperienza fatta più con i sensi e le emozioni che con l’intelletto; un’esperienza di un rapporto affettivo con il mondo.
La sensazione che Hutton voleva restituire con il proprio cinema probabilmente era quella di percepirsi come una sorta di valore aggiunto in quello spazio essenziale che è il mondo: le persone nei suoi film sono un punto nello spazio, e il regista ha lavorato spesso attorno a questa sproporzione amplificandola, si pensi ad esempio a At Sea (2007); oppure a Skagafjordur (2002-2004).

 

 

«L’ultimo paesaggio che filmerò è l’Etiopia» aveva dichiarato Hutton a Luke Fowler; e così è stato. Il riferimento è al terzo paesaggio di Three Landscapes suggerito al regista dal collega Robert Gardner, che nel 1968 andò nella depressione di Dallol a girare un film molto breve sui pastori dell’Afar, che in quella valle estraggono il sale. Si tratta del punto più basso dell’Africa, uno dei luoghi più caldi della Terra.

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Nel 2010 fu lo stesso Gardner a chiedere ad Hutton se fosse interessato ad andare nel Dallol per aggiungere materiale e quindi in un certo senso continuare il lavoro che lui aveva cominciato. Hutton accettò, un po’ per ammirazione – ha sempre voluto essere uno di quegli artisti, come Gardner, che vivevano nel mondo. Un po’ per indole – «Quando ho cominciato a fare film, negli anni Sessanta, pensavo che sarebbe bastato avere una vita interessante e viaggiare sempre, e le cose si sarebbero risolte da sé». Ma soprattutto per ritrovare «una delle immagini più belle e ricorrenti del girato di Gardner». Una «ripresa da lontano di una carovana di cammelli che attraversa l’orizzonte. Il paesaggio sembra sul punto di sciogliersi per le intense ondate di calore. Non si capisce se è reale oppure un’allucinazione. Sono ossessionato da quell’immagine: è come una di quelle cose che forse si vedono subito prima di morire, un’antica memoria di viaggio».