Il Museo Pecci di Prato aprirà il prossimo autunno 2016. In attesa della sua «inaugurazione», ha lanciato il Forum dell’arte contemporanea, che si è appena concluso. I numeri riassumono un impegno collettivo forse inopinato: 42 coordinatori, 400 relatori e oltre 1000 partecipanti provenienti da tutta Italia, che attorno a tavoli di lavoro hanno intessuto un puzzle di questioni, obiezioni, interrogazioni sul sistema dell’arte contemporanea.
Sarebbe avventato decretare l’epilogo su un work in progress che implica un tempo meditativo e un tempo costruttivo vista la complessità dei nodi esaminati, alcuni dei quali fondamentali (formazione, educazione, ruolo sociale dell’arte, dibattito critico, mercato). Il Forum ha attivato una sorta di «risveglio» critico di una comunità artistica sincretica (transgenerazionale e difforme nelle sue pratiche e idee), ansiosa di elaborare nuovi dispositivi di interpretazione e relazione sociale. La scossa verso il «dialogo fisico» è stata stimolata dal team composto da Fabio Cavallucci, Cesare Pietroiusti, Ilaria Bonacossa, Anna Daneri e Pierluigi Sacco. A Cesare Pietroiusti (Roma, 1955) abbiamo chiesto una riflessione sull’evento pratese.

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Cesare Pietroiusti

Come ideatore del Forum di Prato può considerarsi soddisfatto?
Sì, sia per la partecipazione complessiva, assai numerosa e di qualità, che per il clima che si respirava, la voglia di incontrarsi, discutere costruttivamente e progettare assieme. Su queste cose il Forum è andato al di là delle aspettative.

In generale, si è avuta la percezione di un debole senso di auto-responsabilità nei partecipanti. Quando un sistema non funziona è anche colpa di chi lo declina…
Uno degli intenti del Forum era proprio quello di declinare il discorso dei vari attori del cosiddetto «sistema dell’arte». In questo senso, ho accolto molto favorevolmente l’attitudine generosa e lo spirito «di servizio» di un gran numero di giovani curatrici, curatori e critici d’arte, in particolare quelle/i che hanno lavorato come «coordinatori» dei vari tavoli di lavoro. Non vorrei essere troppo ottimista, mi sembra però che il clima stia cambiando, e che i cahiers de doléance o le uscite paranoidi (con attacchi indiscriminati e qualunquistici al «sistema») stiano diventando più rari. Peccato che i media (giornali, riviste online, blog etc.) raccolgano e rilancino solo quelli…

Non crede che il Forum per costruire un senso debba avere una sua continuità, anche attraverso altre forme di elaborazione comunitaria?
Questo è soltanto l’avvio di un processo che richiede, fra l’altro, una diversa e controintuitiva interpretazione del problema-tempo. Per produrre senso è necessario liberarsi dalla schiavitù della «mancanza di tempo», imparare a concepirlo come una risorsa e un evento singolare, e non come successione di momenti tutti uguali fra loro che ci sfuggono inesorabilmente. Bisogna saper «giocare con il tempo» e non lasciarsi intrappolare nel terrore della sua perdita.
L’altro elemento fondamentale è l’incontro fra le persone fisiche. La posta elettronica e le reti digitali dovrebbero essere concepite come strumenti in grado di favorire gli incontri, non sostituirli, poiché il senso si produce nel dialogo, avendo tempo a disposizione. Per esempio, proprio stando in più persone intorno a un tavolo. Come accade in un laboratorio.

È sempre convinto che l’elaborazione dei tavoli di riflessione e di proposte debba essere condiviso dal pubblico?
Un laboratorio efficace, in effetti, richiede un numero dato di partecipanti e una motivazione di partenza che li accomuna. A Prato conviveva un modello tradizionale di convegno (le plenarie in teatro) con un gran numero di tavoli chiamati, spesso in simultanea, ad affrontare tematiche specifiche, con relatori prestabiliti e una possibilità di intervento da parte del pubblico. Penso sia molto importante riflettere sul tipo di modello di comunicazione che si propone (per esempio «come si fa un convegno»), non accontentandosi di quelli imposti dalle convenzioni. Il modo di dire qualcosa è importante, anche da un punto di vista politico, di ciò che si vuole dire.

Le «immagini dialettiche» che si sono rincorse nei tavoli di lavoro saranno destinate a reificarsi o a crollare dietro le logiche di potere dell’inamovibile establishment artistico italiano?
Qualunque immagine poetica può essere saturata con interpretazioni o strumentalizzazioni che ne ingabbiano il senso in una definizione e, annullandone le potenzialità e «stabilizzandola», può essere convertita in una merce o in una pubblicità.
L’idea benjaminiana dell’«immagine dialettica» ci incoraggia a non temere, nell’opera d’arte, la compresenza di diversi tempi e di differenti sensi (direzioni, significati, sensorialità), a non temere la contraddizione, l’errore, la pausa, il ritorno, il silenzio, e anzi a fare di tutto ciò il «materiale» del nostro lavoro. L’establishment non potrà più nulla se gli artisti, i pensatori, i critici, si libereranno, in tanti e decisivamente, da quei timori.

Forse il sistema dell’arte contemporanea italiana si è troppo assoggettato alla politica e di conseguenza è poco politico (nel senso arendtiano di pluralità)?
Una delle urgenze è sicuramente quella di restituire al termine «politica» un significato più alto, denso e impegnativo rispetto all’avvilente spettacolo dei professionisti dell’amministrazione imposto dai mezzi di comunicazione. Fare politica – e penso a quello che diceva Hannah Arendt in Vita Activa – è produrre senso attraverso lo scambio di idee e di discorsi (non di merci e di finanza), uno scambio in cui i singoli siano capaci, dialetticamente, di dar vita a parole e pensieri originali, e, allo stesso tempo, di spossessarsi delle proprie idee, di contribuendo così alla creazione di una mente di gruppo, e alla produzione di discorsi collettivi.