Lo scenario che Marco Revelli ci sottopone in un piccolo volume La lotta di classe esiste e l’hanno vinta i ricchi (Laterza pp. 96, euro 9), non si discosta di molto da quello percorso in lungo e in largo nel monumentale bestseller di Thomas Piketty, Il Capitale nel XXI secolo: uno spaventoso incremento del divario tra i più ricchi e i più poveri, tanto che lo si consideri a livello globale, tra i diversi paesi o all’interno di singoli stati. Divario che non ha smesso di crescere a partire dalla metà degli anni Settanta, dalla fine dei cosiddetti «30 gloriosi» anni che hanno seguito la fine della seconda guerra mondiale. Il fenomeno è da tempo ammesso e certificato da tutti gli organismi internazionali che non mancano di sottolinearne le proporzioni drammatiche. Alla fine del secolo scorso, dopo 25 anni di politiche liberiste, l’1% più ricco della popolazione mondiale riceveva un reddito pari a quello del 57% più povero, risultato che non sembra tuttavia sufficiente a rimetterle in discussione. Tanto è vero che il nuovo secolo non ha affatto invertito la rotta, semmai ha impresso un’accelerazione.

Questo vertiginoso aumento della diseguaglianza poggiava e poggia, oltre che su concrete scelte politiche, su una ideologia tra le più dogmatiche che la modernità abbia mai conosciuto. Ed è dunque sugli elementi basici di questa ideologia e sul loro palese attrito con la realtà empirica che Revelli concentra la sua analisi. Le politiche di diminuzione della pressione fiscale sui redditi più elevati, sulla rendita e sui patrimoni maggiori, con il conseguente smantellamento dello stato sociale e contenimento dei livelli salariali si autolegittimavano sostenendo che dall’incremento delle ricchezze più cospicue qualcosa sarebbe «sgocciolato» sulle fasce più povere della popolazione. Che, insomma, dall’arricchimento dei ricchi, tutti, alla fine avrebbero tratto qualche vantaggio. Così recitava la teoria del trickle down. Che, come ogni dogmatica che si rispetti, non mancava di avvalersi delle sue belle espressioni geometriche. In questo caso due eleganti curve, quella di Laffer (professore in una business school negli anni Settanta) e quella di Kuznets (studioso dello sviluppo economico e premio Nobel nel ’71).

La prima curva intendeva dimostrare che, oltre un certo tetto, la crescita dell’aliquota fiscale determina una diminuzione del gettito. In altre parole se le tasse sono troppo elevate gli alti redditi o evadono o incrociano le braccia, e lo Stato cessa di incassare. Su quale sia, però, il punto di equilibrio oltre il quale la progressività fiscale diventerebbe dannosa, la «scienza» non si arrischia a sentenziare. Anche perché la progressione è relativa al rapporto con altre fasce di reddito, tutte con la loro soglia di insopportabilità fiscale, oltre la quale l’inattività o il lavoro nero potrebbero rivelarsi una scelta conveniente, soprattutto in società in cui il lavoro autonomo e precario tende a moltiplicarsi sempre di più. Anche tassare eccessivamente i poveri può dunque comportare qualche problema per le casse dello Stato. In ogni modo la teoria del «gocciolamento», nella sua rozzezza apologetica, non teneva in nessun conto quel processo, ormai avanzatissimo, di separazione della ricchezza da qualsivoglia contesto di sviluppo sociale che avrebbe dato luogo al mondo parallelo e impermeabile dei circuiti finanziari, né la tendenza dei mercati a concentrare e drenare, più che ad annaffiare gli strati più deboli della popolazione e la loro capacità di consumo. Una visione gerarchica, quella del trickle-down, buona magari per condizioni da ancien régime o per più recenti regimi clientelari, dove qualche elemosina effettivamente «sgocciolava», ma del tutto inapplicabile alla realtà del capitalismo contemporaneo che la ha palesemente smentita.

La seconda curva, quella di Kuntzes ci rassicura invece sul fatto che nel corso dello sviluppo il tasso di diseguaglianza (misurato dall’indice di Gini, il rapporto tra la ricchezza del primo e dell’ultimo percentile) cresce solo in una prima fase, ma poi, raggiunto un punto di massimo squilibrio, tende rapidamente a decrescere. Al culmine dell’ottimismo progressista lo stesso andamento consolatorio verrà attribuito anche al degrado ambientale che, in crescita nelle fasi iniziali dello sviluppo industriale, sarà poi progressivamente ridotto da una innovazione tecnologica sempre più raffinata. Le analisi ad ampio raggio di Piketty e i dati riportati da Revelli dimostrano, invece, che la diseguaglianza continua a crescere a dismisura, tanto che il punto di «massimo squilibrio» previsto dalla curva di Kuntzes potrebbe corrispondere a un grado di barbarie e di oppressione dal quale non vi sarebbe ritorno se non nei termini di una rottura traumatica. Eventualità di fronte alla quale i modelli matematici sono ridotti al silenzio. Ma intanto il capitale «prende tempo».

Il problema è che la diseguaglianza, che «sgoccioli» o meno sui più sfavoriti, non è un elemento oggettivo, un fattore neutro o un significato univoco. Ai vertici della gerarchia è considerata un valore, alla sua base, almeno quella non accecata dalla fabbrica delle illusioni, un male. Certo la storia della modernità impedisce di considerare la diseguaglianza come un valore assoluto, di natura, per così dire, eugenetica, ma è anche vero che nel corso dell’ultimo trentennio il valore delle ineguaglianze è diventato sempre meno relativo, sempre più apertamente elogiato, avvalendosi anche del corso fallimentare preso dalle esperienze «egualitarie» di Stato del Novecento. Di qui la coesistenza tra retoriche politiche che denunciano la drammaticità degli squilibri economici e sociali e pratiche politiche che tendono a conservarli, quando non ad accrescerli.

Di fronte a questo cupo scenario di devastante sconfitta dell’idea egualitaria, la «lotta di classe» che conferisce il titolo al volume sembra scomparire del tutto al suo interno. Si intende con questo che la «vittoria dei ricchi» coincide con la sua scomparsa? Che la fine della storia non è solo ideologia dominante, ma anche un elemento di realtà? Tanto nel libro di Piketty, quanto nella sintetica analisi di Revelli si ha l’impressione di assistere al passaggio da una «Storia storica» a una «Storia inorganica», la quale nel descrivere senza reticenze il mondo iniquo e devastato prodotto dalla controrivoluzione neoliberista, ne proietta l’implosione verso un punto di «massimo squilibrio» in cui le contraddizioni di sistema non saranno più controllabili, su una curva di Kuntzes che si arresta a metà, smentendo l’ottimismo del suo ideatore. Laddove si produce, per dirla con Robert Kurtz, «il collasso della modernizzazione», la catastrofe dell’economia di mercato. Se è vero che per il capitale la vittoria nello scontro di classe consiste nel decretarne la scomparsa, nella negazione del ruolo storico che esso ha svolto nello sviluppo delle società, è pur vero che la sconfitta non può condurre la controparte alle medesime conclusioni. Che molte armi del passato siano ormai spuntate è una circostanza difficile da negare, ma che spetti ancora alla dimensione della lotta e non a un ravvedimento illuministico da parte del potere imporre una inversione di rotta lo è altrettanto