Jan Brokken (1949), giornalista, viaggiatore, scrittore olandese, giunto in Italia in occasione del BookCity festival di Milano dal 14 al 16 novembre, ha raccontato di persona il suo ultimo libro da poco uscito in traduzione italiana per Iperborea, Anime baltiche (traduzione italiana di Claudia Cozzi e Claudia Di Palermo, postfazione di Alessandro Marzo Magno, pp. 500, euro 19,50; cfr. recensione in Alias del 2.11.2014), un romanzo/reportage attraverso Estonia, Lettonia e Lituania sulle tracce di personaggi famosi e gente comune che di quei paesi hanno fatto e subìto la storia.
Hannah Arendt, Roman Gary, Jacques Lipchitz, Arvo Pärt, Gidon Kremer, Sergej Ejzenštejn e molti altri ancora, testimoniano il divenire di un mondo che per decenni è risorto dalle ceneri dei passati regimi, che ha avuto l’orgoglio e la forza di lottare per la propria cultura. Già autore di numerosi romanzi e reportage di viaggio, Jan Brokken è noto in Italia per aver pubblicato la biografia del pianista russo Youri Egorov (Nella casa del pianista, Iperborea 2011), un altro ritratto individuale attraverso il quale è adombrata la storia di un intero paese. La peculiarità della scrittura di Brokken è proprio il mostrare che la Storia non è un monolito semovente, hegelianamente cieco dinanzi ai singoli. La «Storia», al contrario, non esiste se non declinata al plurale: come tante storie individuali che, alla maniera di infinite singole cellule, sostanziano e danno senso a un organismo altrimenti inesistente.

Jan Brokken si presenta trafelato al nostro appuntamento nella hall dell’hotel milanese in cui alloggia: ci tiene a essere puntuale e ha già la valigia in mano. È di nuovo in partenza, questa volta sotto una pioggia torrenziale che non accenna a diminuire. Racconta che, in fondo, lui in viaggio ci è nato: è stato concepito sulla nave che riportava a casa i genitori – due antropologi, studiosi dei movimenti islamici nel Sulawesi – dall’Indonesia ai Paesi Bassi, quando con la Seconda guerra, in seguito all’occupazione giapponese, si svilupparono quei movimenti separatisti che portarono infine la colonia olandese all’indipendenza.

Cominciamo dall’inizio, dal titolo del suo libro: «Anime baltiche», «Baltische zielen» nell’originale. La tradizione – la tradizione filosofica almeno – ha sempre visto nell’anima, per definizione, l’«essenza», ovvero un qualcosa che non muta. Perciò è interessante che lei abbia scelto proprio questa parola per indicare le figure, i personaggi che popolano il suo libro, protagonisti di vicende che a tutto hanno condotto meno che alla stabilità, all’immutabilità. Molti di loro per sopravvivere dovettero più volte cambiare il proprio nome, il segno più tangibile di un’indentità. Usando questa parola lei intende dire che nell’«anima baltica» c’è un qualcosa che permane immutabile, nonostante i continui cambiamenti a cui furono condannati gli abitanti di Estonia, Lettonia e Lituania?

Ci sono molte differenze tra le persone che descrivo. Quel che ho cercato di fare è stato raccontare la storia dei Paesi baltici attraverso le storie di diverse famiglie. Mentre facevo ricerche su queste storie sono rimasto impressionato dal fatto che potevo trovarmi tanto dinanzi a un ebreo lettone, quanto a uno estone, o lituano, o a un tedesco di una regione baltica di lingua tedesca, o a uno svedese – esiste anche una minoranza svedese in Estonia – o a un cittadino di origine polacca: in tutte queste persone c’era un tratto comune. I Paesi baltici sono stati occupati per secoli da diverse grandi potenze: Russia, Svezia, Polonia, ma hanno sempre mantenuto la loro identità, e questa identità è la loro lingua, l’eredità musicale, drammaturgica. Quindi è la cultura che li ha salvati dalla distruzione. Un altro tratto comune che contraddistingue le «anime baltiche» è il fatto che sono persone che non perdono mai la speranza, la speranza nel futuro. Sono orgogliose della loro cultura e delle loro origini, della loro famiglia, delle loro radici. Ma si tratta di un orgoglio che non ha nulla a che vedere con il nazionalismo.

Quando ha deciso di scrivere questo libro qual è stato il suo punto di partenza: i paesi o le persone?

Sono stato guidato fin da principio dalle storie delle famiglie. Il mio modo di raccontare si propone di ricostruire la storia di un paese attraverso quella della gente che vi abita o vi ha abitato. Può trattarsi di gente molto famosa, o assolutamete sconosciuta. Non voglio riferire la storia ufficiale. In questo libro compaiono tutti i modi della narrazione. C’è il racconto lungo e c’è la biografia, c’è la narrazione storica, il pezzo giornalistico e il racconto di viaggio… Ho deciso di mettere insieme tutti questi tipi di narrazione perché, singolarmente presi, presentano ognuno un lato negativo. Il racconto storico è freddo, fornisce solo fatti, nessun sentimento; le biografie sono indubbiamente interessanti, ma sempre troppo lunghe; i romanzi spesso hanno un bello stile, offrono un elegante modo di vedere le cose, ma le storie in essi contenute non sono sempre così affascinanti e originali. Ma se unisci tutti questi generi, allora hai il meglio di tutto.

A proposito del suo modo di raccontare: sappiamo che lei ha scritto moltissimi libri di viaggio, da «The Rainbird» del 1997, che narra la storia di un viaggio nel Gabon, nell’Africa equatoriale, all’acclamatissimo «Jungle Rudy» del 2006, sul Venezuela, solo per citarne qualcuno. In «Anime baltiche», lei scrive che «viaggiare, insieme a leggere e ascoltare, è sempre la via più utile e più breve per arrivare a se stessi». Qual è invece il ruolo dello «scrivere» in questa sorta di elenco? Come cambia la percezione delle cose che ha provato, di quello che ha letto, che ha ascoltato, quando comincia a raccontare agli altri?

Le storie che racconto mi colpiscono sempre molto, anche se appartengono ad altre persone. In particolare, la storia di Gidon Kremer ha avuto per me un significato speciale, soprattutto quella di suo padre, Markus Kremer. Quando cominciai a scrivere questa storia non mi ero reso conto del perché fosse per me emotivamente così forte: nella mia prima intervista alla radio olandese dopo la pubblicazione del libro, mi sono ritrovato a piangere nel raccontarla.
Una volta a casa ho preso a interrogarmi su quello che era successo, e mi sono reso conto che, in qualche modo, stavo ripercorrendo la mia stessa storia: anche mio padre e mia madre sono stati in un campo di concentramento in Indonesia durante la guerra, e così i miei fratelli. I miei genitori e i miei fratelli non hanno mai accettato la propria sorte, e io capivo il loro dramma, il loro stato d’animo, anche se ne ero escluso. Ho potuto capire Gidon Kremer perché come me è nato dopo la guerra e suo padre, come il mio, per il resto della vita si è in un certo senso vergognato di essere sopravvissuto, mentre ha visto morire il suo migliore amico. Sono gli stessi sentimenti che vivevo in me, quelli che in questo caso mi è capitato di raccontare. Scrivere di lui è stato come scavare in me stesso.

Un altro tema che percorre tutto il suo libro è quello del rapporto tra identità e relazioni amorose. Un passaggio in particolare risulta emblematico: quando Hannah Arendt si chiede come fosse possibile avere «il grande amore» preservando allo stesso tempo la propria identità. Questa domanda assume un significato speciale in riferimento alle «anime baltiche» di cui lei racconta? Penso soprattutto alla vita di Roman Gary.

Mentre facevo le mie ricerche per raccontare le storie di Hannah Arendt e Roman Gary mi sono reso conto che nessuno di loro ha mai scritto nulla di sé nelle proprie opere. Gary addirittura mente in continuazione, non dice di essere ebreo e racconta di essere russo, nega di essere nato a Vilnius, così come Arendt non parla mai di suo padre e non racconta mai di Königsberg. Eppure appare evidente, leggendo i loro scritti, che questo loro passato è determinante: essere una minoranza ti marca per la vita e segna il tuo modo di vedere le cose.
Quello che mi è piaciuto così tanto nella Arendt è il suo orgoglio. Ricordo quello che le diceva la madre: non doveva permettere a nessuno di umiliarla. Se gli insegnanti facevano osservazioni antisemite lei aveva ricevuto istruzione di alzarsi e tornare a casa a riferire, del resto se ne sarebbe occupata la madre. Ma se era un coetaneo a offenderla, allora non le era permesso riferirne a casa. Dalle offese degli altri bambini bisognava sapersi difendere da soli. La madre le ha insegnato la responsabilità e le ha insegnato che bisogna essere orgogliosi di essere ebrei. Questo atteggiamento, per me, è un atteggiamento baltico. Essere orgogliosi. Essere orgogliosi delle proprie radici, che tu sia ebreo o sia un baltico tedesco, o lettone. Essere orgogliosi della propria cultura, della propria lingua, della propria storia. Le relazioni amorose, per tutti i personaggi di cui parlo, sono state un grossissimo problema. Ma anche per ragioni contingenti.
Penso a Janis Roze, per esempio: sua moglie e sua figlia rimasero nove anni in Siberia. È difficilissimo con una storia simile avere delle relazioni stabili, una vita stabile. In tutte le famiglie che racconto c’è stata una tragedia analoga. Penso a Gary, ma anche Rothko. Ho scoperto però che, se anche se hai perso qualsiasi cosa, hai comunque una famiglia, e questa famiglia sono la tua lingua e la tua cultura. Di questo non me ne sono accorto immediatamente: quando scrissi il mio primo romanzo, De provincie (romanzo autobiografico del 1984, trasposto cinematograficamente dal regista olandese Jan Bosdriesz nel 1991, ndr) ancora non lo sapevo.
Ho cambiato idea sulla famiglia: all’inizio credevo che non si potesse mai essere completamente liberi da essa. Ma poi ho capito che è la tua ricchezza e non la puoi perdere, perché se la perdi hai perso la tua lingua, le tue radici. Le tue radici sono tutto. Questo è il senso del mio romanzo.

Nel suo libro, lei ha ricordato «Il colpo di grazia» di Marguerite Yourcenar, forse uno dei più bei romanzi che siano mai stati scritti da una donna, un romanzo che è ambientato proprio in Curlandia durante la guerra civile russa nel 1919. Ha scritto che quando si è trovato negli stessi luoghi del romanzo – al quale si è avvicinato grazie al film di Volker Schlöndorff del 1976, con Margarethe von Trotta – le è sembrato di rivivere la stessa atmosfera di quei giorni. Vuole parlarci di questa atmosfera?

È un luogo così lontano da tutto: ero alla stazione ferroviaria, in mezzo al nulla, con la foresta alle porte, era inverno… La Curlandia, all’epoca della storia di Sophie (la protagonista del romanzo, ndr) era una zona chiusa, protetta, perché era un’area militare: le cose cambiarono solo nel 1945, prima era proibito entrare, anche gli abitanti della Lettonia dovevano avere un permesso speciale per potere entrare, e anche quando riuscivano ad accedere, il tempo di permanenza era limitato, per quanto fossero di Riga o di Tartu. È un luogo rimasto in qualche modo incontaminato.
Non è così strano che Tomasi di Lampedusa abbia cominciato Il Gattopardo proprio lì, immerso nel sapore dolciastro di un’aristocrazia decaduta, di fasti oramai perduti, quando non hai più nulla, ma hai ancora l’aristocrazia dello spirito. È una sensazione meravigliosa. La stessa Yourcenar veniva da una famiglia aristocratica decaduta, la madre discendeva da una nobile stirpe russa.
La Curlandia, come i Paesi baltici, è in fondo un luogo dello spirito: la Yourcenar non vi è mai stata, ha scritto il suo romanzo tra Capri e Sorrento, eppure ha descritto alla perfezione quel luogo. Perché l’aveva dentro di sé.