La stanchezza traspare, anche se non è detto che non vi siano degli antidoti. La stanchezza stava peraltro già nello stesso dispositivo di legge che più di quindici anni fa venne licenziato dal Parlamento italiano, dando così corpo al «Giorno della memoria». Il quale ha cercato di riordinare i molti stimoli che una parte della società civile, e delle istituzioni, andavano offrendo oramai da diverso tempo, essenzialmente per spinta autonoma.

LA SVOLTA, infatti, si era consumata nel corso degli anni Ottanta, quando il ricordo dello sterminio degli ebrei entrò definitivamente a fare parte del bagaglio di competenze e sensibilità sul quale misurare la formazione di una cittadinanza democratica ed europea. Anche per questa ragione, quindi, si percepiscono oggi, meglio che negli anni trascorsi, opportunità e limiti di un discorso pubblico su quel passato. Tanto più dal momento che il presente, quello per l’appunto dell’Unione Europea, sembra in discussione mentre il suo futuro pare ancora più incerto. Da tempo, peraltro, si ragiona sempre più spesso sulla «post-memoria» e certo non per il gusto di mettere prefissi un po’ ovunque.

Già nel 1997, infatti, Marianne Hirsh, docente alla Columbia University, indicava in tale modo il complesso rapporto tra la generazione dei figli e quella dei genitori sopravvissuti ad un trauma tanto sconvolgente.
La relazione si pone nei termini di una rielaborazione culturale composita, sospesa tra immagini e immaginazione, tra raffigurazioni iconiche ed espressioni artistiche, dove le tragedie del passato vengono fatte oggetto di un ricordo in assenza della concreta esperienza dei fatti materiali. In questo caso la post-memoria identifica propriamente il legame delle generazioni successive con le esperienze catastrofiche avvenute prima della loro nascita, tuttavia sedimentatesi nelle loro vite attraverso i racconti, le esperienze e le sofferenze dei genitori o dei nonni. Il termine «post» sottolinea la distanza temporale e qualitativa delle due memorie, mettendo in evidenza il carattere di consapevolezza di seconda o successiva generazione, com’è tipicamente quella dei figli e dei nipoti.

QUESTO NESSO tra fondale storico, che si allontana con il trascorrere del tempo, e la necessità di rivivere un dramma da parte delle generazioni successive, senza che si dia un legame diretto con gli eventi, è andato quindi assumendo una rilevanza crescente. Al punto che, di fatto, l’oggetto reale del «Giorno della memoria» è divenuto l’esercizio stesso del ricordare in pubblico.

Quindi, in immediato riflesso, dell’uso pubblico della memoria, alla quale sono attribuite funzioni che non sempre le competono, quasi si trattasse di esercitare una sorta di supplenza all’azione della politica. Con i rischi di cadute nel ritualismo, nella banalizzazione ma anche nell’assolutizzazione e nella monumentalizzazione che la trasmissione tra diverse generazioni spesso porta con sé.

L’ETÀ DEL TESTIMONE, che aveva accompagnato i decenni trascorsi, dai primi anni Sessanta in poi, con il processo Eichmann a Gerusalemme e quello di Francoforte contro i carnefici quotidiani di Auschwitz, ossia gli esecutori, si è peraltro quasi definitivamente conclusa. Senz’altro per un ovvio riscontro anagrafico, con il venire meno dei protagonisti di allora, ma anche perché la testimonianza, rivelatasi preziosa nel ricostruire uno scenario di quadro dai tratti polifonici, così come nel restituire un volto alle vittime, intese come persone e non in quanto numeri, sempre di meno potrà essere vissuta nei termini di un resoconto diretto. Rischiando semmai di trasformarsi in una versione intercambiabile di suoni in assenza di voci. Oggi l’orizzonte è ben poco lineare, al netto degli stessi usi politici del passato, che si ripetono con preoccupante continuità.

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Date queste premesse, chi ha cercato di raccogliere e di riannodare i fili dei significati, ragionando sulla complessità delle trame e la discontinuità degli intrecci della trasmissione è stato, tra i tanti, soprattutto Art Spiegelman, attraverso Maus. La sua opera è divenuta il prototipo della narrazione trasfigurata, mediata dal fumetto, ma anche e soprattutto con il graphic novel, che hanno offerto una modalità di raffigurazione del passato che si confronta con il problema del mutamento dei linguaggi, il conflitto delle rappresentazioni e la difficoltà delle condivisioni.

IL RUOLO DEI MEDIA è stato peraltro dominante in questo transito intergenerazionale.
Non è forse un caso se, dinanzi all’impatto dell’assunzione nel discorso pubblico americano del tema dell’«Olocausto», negli anni Ottanta insieme al lavoro di Spiegelman escano altre opere, costruite con linguaggi tra di loro diversi ma altrettanto fondamentali nel tentativo di evitare il rischio di trasformare una tragedia collettiva in una specie di romanzo d’appendice. Così per «Shoah», il grande affresco documentaristico di Claude Lanzmann, come anche per I sommersi e i salvati, breviario morale sul Novecento a firma di Primo Levi. Si tratta di un trittico, accompagnato da altri lavori che si aggiungeranno nel tempo, il cui elemento comune è il volere sanzionare il passaggio dalle memorie dirette del genocidio al lavoro sul senso della memoria dello sterminio.

IL FUOCO non è più concentrato su quello che successe ma su ciò che sta succedendo. Il tratto comune sta nell’offrirci testi che nel loro sforzo di oggettività obbligano a dismettere gli interrogativi metafisici sulla colpa confrontandosi, invece, sulla categoria della responsabilità. Essi ci chiedono non di giudicare ma di cercare di capire, un viatico indispensabile per superare le altrimenti irrisolte aporie di cui è costellato tutto il terreno del resoconto della Shoah.

C’è chi ha osservato, in merito al Diario tenuto da Adam Czerniaków, presidente del consiglio ebraico del ghetto di Varsavia, suicidatosi nel luglio del 1942 per sottrarsi alla corresponsabilità nelle deportazioni naziste, che l’attualità dei suoi scritti è dettata «dal fatto che gli sforzi falliti, che egli evoca, si accordano necessariamente e misteriosamente con il nostro mondo privo di finalità, nel quale nulla può riuscire poiché non ci sono scopi da raggiungere. Tutto si conclude in uno scacco, anche quando, illudendoci, crediamo di avere raggiunto la meta di uno sforzo, di un viaggio o di un’impresa».

L’elemento inquietante, l’ospite inatteso, l’ombra imprevista di una memoria che per funzionare deve interrogarsi e non lasciarsi cristallizzare riposa forse in questa dimensione, dove nulla di acquiescente viene dato per scontato.