….Che cosa dobbiamo o vogliamo ancora saper di Hannah Arendt, dopo anni di studi fondati su scritti editi e inediti? Dai diari e dai carteggi ci si aspetta il disvelamento dell’aspetto privato della vita di un pensatore o delle sue idee allo stato nascente. Nel caso di Hannah Arendt, ci si trova di fronte a qualcosa di più complesso, a sentieri interrotti del suo pensiero, come quello riguardante l’etica, espresso in corsi di lezioni o nella corrispondenza con Mary McCarthy, e mai elaborato compiutamente. Come se questioni vissute dal vivo – la riflessione sull’etica diventa cruciale nel contesto della «polverizzazione dei criteri morali» emersa con il totalitarismo e la Shoah – incontrassero un limite insormontabile nella loro formulazione teorica e potessero venire espresse per illuminazioni, per esperimenti di pensiero, solo nel contesto di una relazione, come quello della lettera o dell’insegnamento.
Lo stesso si può dire di uno degli aspetti più controversi della vicenda intellettuale di Hannah Arendt, il suo rapporto con l’ebraismo, al centro del carteggio con Kurt Blumenfeld. Ci sono tracce ebraiche e, se ci sono, quali, nella pensatrice ormai annoverata tra i «classicI» del Novecento? Per rispondere a questa domanda, non è sufficiente seguire la strada biografica, e nemmeno quella di un’analisi della derivazione delle sue idee sulla politica dalla riflessione sul totalitarismo e sulla persecuzione antiebraica. Sposata in seconde nozze con un non ebreo, Heinrich Blücher, e impegnata in molti modi nelle questioni della politica ebraica, Hannah Arendt è stata la prima a dare una formulazione paradossale della sua ebraicità. Essere ebrea fu per lei un vincolo di appartenenza, mai rifiutato, ma non identitario, che si tradusse nel compito critico di opporsi all’astrazione del popolo ebraico, che riteneva fosse l’errore comune all’assimilazionismo, al nazionalismo sionista e all’antisemitismo. D’altra parte, Hannah Arendt si sentì sempre un’ebrea tedesca, ossia fece ricorso a un’appartenenza al mondo non ebraico, in particolare a quello della cultura europea, nel senso né di un’identificazione né di una separazione radicale, bensì dell’affermazione della differenza ebraica all’interno di una prospettiva che comprendeva l’intera storia dell’Occidente. Da questa paradossale ambivalenza trae ebraica e esplosa con violenza a proposito del caso Eichmann: interpretare la diaspora, l’esilio e la Shoah come un’esperienza morale e politica dal significato universale e non solo ebraico. Recenti studi, ricerche d’archivio e interventi sollecitati dal successo del film di Margaret von Trotta, Hannah Arendt, mostrano che si tratta di una questione per nulla risolta, che i tagli netti, le cesure interne, le contraddizioni del discorso arendtiano contribuiscono in ampia misura a tenere aperta.
L’ebraicità di Hannah Arendt si gioca interamente sul confine tra vita e pensiero e per questo motivo sono particolarmente adatti a metterne in luce i dilemmi esistenziali e intellettuali i carteggi, vive testimonianze delle «amicizie politiche» che nutrirono la sua vita e il suo pensiero, e nelle quali essa diede prova di grande maestria, e insieme di una drammatica ambiguità. …Kurt Blumenfeld fu una figura di grande rilievo nella maturazione del pensiero politico di Hannah Arendt, che lo conobbe nel 1926 e attraverso la sua critica dell’assimilazione prese coscienza della propria ebraicità. Fino a vent’anni Hannah Arendt aveva trovato «noiosa» la questione ebraica. Costretta all’esilio in Fran­cia nel 1933, aderì al movimento sionista «per colpa di Hitler, impegnandosi nell’attività dell’associazione Youth Aliyah, che favoriva l’espatrio dei ragazzi ebrei in Palestina. Inizia in questo periodo la riflessione e l’intensa produzione giornalistica sui temi dell’antisemitismo e del futuro del popolo ebraico, che si intensificherà nei primi anni dell’esilio americano (1941-1944) con una serie di pubblicazioni su riviste di lingua tedesca come Aufbau e Menorah Journal. A partire dal 1944 Hannah Arendt lavora per la rivista Jewish Social Studies e nel 1948 assume l’incarico, affidatole dalla commissione per la Jewish Cultural Reconstruction, di recuperare libri, antiche pergamene, oggetti d’arte e di culto trafugati agli ebrei durante il nazismo. Questo lavoro, che le con­sentì di tornare in Europa, fu svolto tra il 1949 e il 1952 insieme a Gershom Scholem e in profonda affinità d’intenti con Salo Baron, studioso di storia ebraica alla Columbia University. Esso si collega all’attività di caporedattrice della casa editrice Schoken Books, che le permette di occuparsi della presentazione al pubblico americano di autori a lei molto cari come Walter Benjamin, Bernard Lazare e Franz Kafka. È questo un aspetto poco conosciuto del rapporto di Hannah Arendt con le questioni dell’ebraismo. Con un eccellente lavoro di archivio, Natan Sznaider ha mostrato in un libro recente come, compilando «liste dei tesori culturali ebraici nei paesi occupati dalle potenze dell’Asse», essa perseguisse l’idea di una «tradizione nascosta» dell’ebraismo totalmente divergente dall’immagine di un popolo perseguitato lungo i secoli e impegnato nella lotta per la sopravvivenza. L’eredità culturale ebraica acquisiva in questo modo il valore politico di un patrimonio collettivo destinato alle comunità ebraiche presenti in America, in Israele e nel mondo dopo la Shoah, non più in relazione alla loro appartenenza ai diversi stati nazionali, ma in quanto eredi di una storia e di una cultura dotate di valore autonomo.
In questo quadro si inseriscono gli episodi più noti del conflitto di Hannah Arendt con la comunità ebraica. Nel 1943 era avvenuto il distacco dalle organizzazioni sioniste e l’articolo Ripensare il sionismo provoca, come si è visto, laceranti fratture dell’amicizia con Gershom Scholem e Kurt Blumenfeld. Difendendo durante la guerra posizioni minoritarie in favore della costituzione di un esercito ebraico, e pronunciandosi per uno stato in Palestina che organizzasse la convivenza di ebrei e palestinesi in una struttura federale, indicando la via di un superamento dello stato nazionale a tutti i popoli europei, Arendt espresse una netta opposizione alla fondazione dello Stato di Israele. Lo scandalo provocato dal reportage sul processo Eichmann non farà che amplificare tali profondi e radicati dissensi.
Su questo complesso background si intesse la trama della lunga amicizia con Kurt Blumenfeld, esponente di primo piano del movimento sionista, emigrato in Palestina nel 1933, dove, dopo lunghi soggiorni negli Stati Uniti, nel 1945 si era stabilito definitivamente. Nonostante l’ormai vasta bibliografia sul pensiero arendtiano, Kurt Blumenfeld ha occupato una zona d’ombra da cui è uscito recentemente in maniera abbastanza singolare nel
film di Margaret von Trotta, Hannah Arendt…Kurt Blumenfeld fu invece un uomo politico e un organizzatore, e si trovò progressivamente isolato nel paese di cui amava i colori e i profumi, che corrispondeva al suo bisogno di radica­mento, ma di cui non condivise mai la deriva nazionalista. Le lettere restituiscono l’immagine di due individui le cui strade si sono incontrate per andare in direzioni divergenti. Kurt Blumenfeld, restando in Israele, viveva la sconfitta del suo complesso rapporto con il sionismo, mentre Hannah Arendt intraprendeva in America la sua carriera di intellettuale in ascesa. L’impossibile ritorno nella terra promessa risuona nell’invito perentorio «vieni qui e basta», che rimane senza risposta e progressivamente lascia il posto alla descrizione delle difficoltà della vita da «ultimo sionista» in Israele…Le lettere viaggiano da New York a Gerusalemme e viceversa, dall’America che imprime un ritmo di prestissimo all’attività di Hannah Arendt, e dalla piccola terra, in cui la vita è semplice e mantiene un’impronta di nuovo inizio rispetto alla diaspora, all’antisemitismo e alla Shoah…Il tema modulato in molte variazioni attraverso il quale la voce di Kurt Blumenfeld risuona nello spettro di toni che gli sono più congeniali, dalla collera alla disillusione al malinconico senso dell’approssimarsi della fine, è il destino dell’ebraismo europeo distrutto dalla Shoah. Intorno a esso le strade divergenti dei due amici trovano un punto di contatto, come se la loro amicizia potesse alimentarsi solo della fine di ciò che li aveva fatti incontrare, la fusione della cultura ebraica e di quella tedesca, e il suo prodotto, il sionismo. Kurt Blumenfeld definisce quel periodo «l’apogeo non solo della storia ebraica, ma anche della storia dell’umanità». Hannah Arendt lo vede nell’ottica di un’epoca irrimediabilmente finita, il cui fallimento deve tuttavia essere indagato storicamente e criticamente.

 

Kurt Blumenfeld
P.O.B. 583 Gerusalemme
Signora Hannah Arendt,
New York 26 giugno 1945
Mia cara Hannah,
eccomi arrivato da tre settimane in patria. Quel che ho vissuto in questo periodo basterebbe per riempire il bagaglio di un uomo dalle pretese più modeste. L’aria di Gerusalemme ci rende intelligenti? Non lo so. In ogni caso mi rende sano. A volte mi sento così bene che urlo spaventato: Jenny, euforia! Fino a ieri ho avuto molto freddo, e la notte ho dormito sempre con due coperte. Ieri è stata la giornata dell’Irgun Olej Merkas Europa1, che riunisce tutti i gruppi che, dall’Europa, hanno trovato la strada per venire fin qui. Come sempre in questi congressi, abbiamo avuto il Chamsin. Senza rendermene conto, ho parlato per un’ora e mezza, per la gioia dei miei ascoltatori. I miei adepti, come li ho chiamati, erano là insieme a gente proveniente da altri Paesi; ad ogni modo questa volta mi è stato permesso di parlare in un idioma straniero. Ti saresti stupita di sentirmi parlare a quel modo, diversamente da come parlavo durante il mio soggiorno in America, non ricordo in quale anno. Fatico a comprendere pienamente l’effetto prodotto dalle mie parole: non avevo previsto né un simile trasporto, né tanto entusiasmo spontaneo. Questo discorso mi ha fatto capire che, malgrado un lungo periodo di forzata inattività, non ho perso tempo. In un modo o nell’altro ho imparato il mestiere. Ho l’impressione di dovere molto agli amici – sono una manciata, ma sono amici veri – che avevo in America e al mio soggiorno nel Nuovo Mondo.…..mi è bastato vivere qui alcune settimane per imparare tantissime cose della vita in Palestina. Qualche volta ho l’impressione di poter riprendere in mano tutto quanto dal punto in cui l’avevo lasciato sei anni fa. Mi dedicherò all’ebraico, basterà poco. Grazie al semplice fatto di sentire ogni giorno la musica in questa lingua, è facile rinfrescare i ricordi e imparare cose nuove…Ecco dunque qualche notizia, così alla rinfusa, niente sulla politica. Ora sono fermo ancor più di prima sulle mie posizioni1. Non so nemmeno come la penseresti se fossi qui, se saresti lontana dal mio punto di vista. A distanza si capiscono e si sentono dire molte cose, ma sul posto ne vediamo di più. La luce chiara e i contorni netti rivelano di colpo tutto ciò che, al di fuori della Palestina, viene annebbiato e oscurato dalle nuvole.
Da Hannah Arendt 317 West 95th New York, N.Y.
A Kurt Blumenfeld P.O.B. 583 Gerusalemme ,2 agosto 1945
Mio caro Kurt
approfitto delle mie vacanze per scriverti, poiché temo di essere già caduta irrimediabilmente nella pigrizia. Mi trovo in una piccola cittadina universitaria, o meglio in un piccolo college del New Hampshire. Ci sono paesaggi collinari molto belli, e splendide foreste nelle quali non si può mettere piede. Anche le colline sono là solo per gli occhi. Tutte cose che non apprezzo affatto, perché la natura comunica con me attraverso la pelle, che unisce naso, bocca e orecchie. Mi trovo nella casa estiva di amici e sto benissimo. Quest’anno a New York non c’è canicola, è semplicemente umido, il che è anche più sgradevole. La tua lettera (in realtà le tue lettere, dato che Martin mi ha fatto leggere quelle che gli hai spedito) mi ha procurato un vivo piacere. Conosco bene il sentimento di angoscia nel ritrovare vecchi amici. Nei bohémiens come noi, attaccati cioè a niente di quel che possediamo, che si portano appresso il loro ambiente o, meglio, che il loro ambiente sono costretti a produrlo sempre di nuovo, tale angoscia – che di per sé è naturale e comune a tutti gli uomini – assume facilmente proporzioni da panico. I bohémiens sanno che la loro sensibilità non è protetta da nessuna biblioteca e da nessun mobilio. Perciò amicizie e relazioni umane diventano ancor più importanti, anche se è chiaro che si chiede loro sempre troppo. Essendo di fatto l’unico ambito nel quale si possa trovare soddisfazione nella vita privata, nonostante tutta la fedeltà e la correttezza possibili, esse possono essere mantenute solo mediante un contatto costante. Se si ha del mobilio, ci si può ben abituare ad accettare come parti del proprio arredamento anche degli esseri umani. Ma se si conduce la propria esistenza senza mobilio, come dei bohémiens, la cosa diventa notevolmente più difficile.
Mi rallegro al solo sentire dei tuoi successi politici. No, non credo che noi avremmo molte divergenze adesso, e penso che ne avremo ancor meno negli anni a venire, quando le cose diventeranno molto più semplici e assai più nitide. Se non mi sbaglio, ci ritroveremo in una situazione che, a grandi linee, sarà simile a quella degli anni Trenta, quando l’unica cosa importante era essere veramente e autenticamente antifascisti. Solo, questa volta, con altri fronti.

Mrs. Hannah Arendt,
317, West 95th Street,
New York, N.Y. 17 settembre 1945
Cara Hannah,
………
Quanto alla politica in generale, ho poche cose da aggiungere a quelle che ti avevo detto a New York. Il Medio Oriente resta sfera di interesse inglese, ancor più di quanto immaginassi. La Russia è molto indaffarata, si procura altrove tutte le materie prime di cui ha bisogno e per il momento non si fa assolutamente notare, e la Hashomer Hatzair e il Linke Poale Zion ne sono molto scontenti. Le truppe inglesi lasciano l’Egitto, e in Palestina avremo alcuni manipoli di truppe d’occupazione permanenti. Truman credeva che fossero necessari 500.000 uomini, cosa che ha certamente detto per rispondere alla pressione dei sionisti americani, rendendoci un cattivo servizio. Come ti potrebbe spiegare un esperto di cose militari, oggi non c’è bisogno di tante truppe per placare la popolazione di un piccolo paese. Come potrai immaginare, noi qui viviamo seduti sul famoso barile di polvere da sparo, e ovviamente ci sono parecchie persone che aspettano che qualcuno ci butti dentro un fiammifero. Non so dire che piega prenderà la situazione nelle prossime settimane. I «duri» hanno già provato e annunciato talmente tante cose che non si raggiungerà una soluzione negoziata. Già così andrebbe male abbastanza. Per la prognosi, l’evoluzione della situazione in Siria offre un’eccellente analogia: fu uno scandalo quando i francesi tentarono di reprimere una ribellione con 500 uomini. Poi fu considerato normale che qualche giorno dopo gli inglesi arrivassero con 60.000 uomini. Non è bello vivere in questo mondo, e il fatto che ciò che accade qui non sia che una minima parte del dramma che attraversa il mondo è una magra consolazione. Con i concetti di diritto e giustizia, di democrazia e di antifascismo non si può fare molto. Landauer ha scritto un bell’opuscolo sulla «democrazia interventista». Quindi potresti credere che qui io non abbia la minima speranza. Non è vero. …..

Hannah Arendt a Kurt Blumenfeld
14 gennaio 1946
……………
Sono d’accordo su molti punti del tuo articolo, che è scritto molto bene; non credo però all’emigrazione di massa dagli Stati Uniti, a mio avviso è semplicemente impossibile. In più non ne vedo la necessità: di 1,25 o 1,5 di ebrei che ci sono ancora in Europa, ci servirebbe spostarne un milione subito, e non siamo in grado di farlo. Tutto sommato questo è nientemeno che una questione di vita o di morte; temo che la situazione sia anche più grave. Ho da poco letto su un giornale una dichiarazione di Silver, che dice che gli ebrei non accetterebbero l’immigrazione senza uno Stato. Buon Dio, le persone sono diventate completamente matte. Hai perfettamente ragione nelle considerazioni che fai circa la situazione che è venuta a crearsi in Europa. Qui ho parlato dell’Europa con vari ebrei: Gamzon1, che viene dalla Francia – degli Eclaireurs Israélites, un movimento di gioventù ebraica finanziato dai Rothschild –, penso sia stato un vero eroe della Resistenza. Lui parla in modo chiaro fin nel dettaglio, come ha fatto anche nel 1938 e nel 1939. Ci siamo visti da soli, e alle mie domande ha risposto chiarendo nel modo più limpido ed estremo che in Francia l’antisemitismo non esiste. (Avevo appena ricevuto da un mio conoscente, un cattolico non ebreo, una lettera molto inquietante al riguardo.) Poi ho visto e parlato con Baeck, che è veramente impressionante perché proprio coraggioso. Si esprime esattamente come nel 1932: Hitler ha perseguitato gli ebrei, perché? A causa del loro talento, naturalmente! E un ebreo non potrebbe mai essere un uomo banale come gli altri. Insomma la normale robaccia sciovinista di quelli favorevoli all’assimilazione, da sempre.