L’antropologia può essere molte cose. Per esempio, un ramo delle scienze biologiche che si occupa della morfologia e della fisiologia del gruppo zoologico degli ominidi. Oggi, quando si introduce il termine, si ritiene scontato che si stia parlando di antropologia culturale nelle sua varianti strutturaliste e, soprattutto, etnografiche. In un’accezione ancora differente, l’antropologia si presenta come la parte della filosofia che si raccoglie intorno alla domanda «che cosa è l’uomo?» ponendo contestualmente la questione della sua differenza specifica rispetto agli altri animali o a esseri quali spiriti, dei, angeli, demoni. Se gli avi dell’antropologia culturale possono essere individuati in Erodoto e nei sofisti, con il loro gusto per la descrizione degli usi e costumi di popoli più o meno esotici, la perimetrazione dell’ambito problematico relativo alla specificità dell’umano risale ai primordi della filosofia, da quanto si può desumere da alcuni frammenti presocratici, per consolidarsi con Platone e, soprattutto, Aristotele.
L’antropologia viene così a costituire un tema con cui ogni filosofo deve fare i conti, da Tommaso a Kant, fino all’idealismo e ai suoi vari «superamenti» o «ribaltamenti». Nella prima metà del novecento, poi, in Germania, al crocevia di filosofia della vita, fenomenologia e interesse per le scienze sociali e naturali una serie di autori – Max Scheler, Arnold Gehlen, Helmut Plessner – attribuisce all’l’interrogazione sullo statuto dell’uomo una tale centralità da generare a posteriori l’abitudine di iscriverli a una comune corrente denominata «antropologia filosofica».

La specializzazione mancante

In genere la tradizione filosofica ha identificato la specificità dell’umano e ciò che segnava la distanza dall’animale in un quid positivo, in qualcosa in più che di volta in volta ha assunto la forma dell’anima razionale, dello spirito, dell’immaginazione o dell’autocoscienza. Una posizione opposta caratterizza Gehlen, per il quale l’elemento differenziale deve essere ricercato in qualcosa di meno, in una mancanza. In base a tale prospettiva, che molto deve a spunti riferibili a Herder e Nietzsche, l’uomo si presenterebbe come un animale privo di ambiente e, per ciò, aperto al mondo, biologicamente indeterminato, istintualmente carente, despecializzato. Si tratta di temi esplorati nell’opera maggiore geheleniana, L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo (Mimesis), uscita nel 1940 e profondamente rielaborata una decina di anni dopo. La carenza istintuale comporta il fatto che nell’uomo non si attivino risposte automatiche agli stimoli dell’ambiente. La sollecitazione suscita l’«esigenza di fare qualcosa», un «sentimento» la cui traduzione in azione resta indeterminata. La despecializzazione, inoltre, spinge gli uomini a ricorrere all’esonero (Entlastung) ossia all’esternalizzazione, tramite gli strumenti tecnici, delle funzioni (per esempio la difesa o il riparo dalle intemperie) che altri animali affidano a organi specializzati.

Tecnica e apocalisse

Gehlen è senza dubbio un autore reazionario. Ad attestarlo non è solo la sua adesione al nazismo ma anche il costante richiamo alle gerarchie e alle esigenze di disciplinamento di un corpo sociale in perpetuo eccesso pulsionale che segnano la sua produzione del dopoguerra. Nonostante tale posizionamento, tuttavia, il suo approccio ha suscitato nel corso dei decenni periodiche ondate di interesse all’interno di ambiti assai lontani dalla sua sensibilità politica. È stato così negli anni Settanta, quando all’ordine del giorno era la questione della soggettività. Nel clima di riflusso del decennio successivo, Gehlen non manca di essere chiamato in causa nelle discussioni innocuamente apocalittiche sul dominio della tecnica. L’approssimarsi del nuovo millennio riaccende l’interesse per l’autore di L’uomo in relazione alle tematiche del posthuman e del cyborg. Se si dovesse individuare un aspetto del pensiero gehleniano in grado di entrare maggiormente in risonanza con le urgenze teoriche e politiche dei nostri anni, invece, la risposta potrebbe essere: le istituzioni. Di conseguenza, si può guardare con interesse alla recente riproposizione, a cura di Vallori Rasini, del testo in cui Gehlen, nel 1956, si confronta in maniera più sistematica con tale tematica: L’uomo delle origini e la tarda cultura. Tesi e risultati filosofici (mimesis, pp. 286. euro 25).

Nonostante Durkheim non sia mai citato, la drammaturgia di L’uomo delle origini e la tarda cultura presenta notevoli affinità con Le forme elementari della vita religiosa. In entrambi i casi, si intraprende una spedizione virtuale nel tempo (e nello spazio) alla ricerca di uno strato arcaico che permetterebbe di svelare i segreti del presente. Detto dell’analogia, relativa al «viaggio in una stanza» per interrogare selvaggi e primitivi, completamente diverso è il registro teorico dei due autori.
Per il positivista Durkheim i riti, i totem e i tabu mostravano allo stato puro ciò che, man mano ci si allontana dall’origine, diviene sempre più opaco e indiscernibile ma non per questo meno presente. Diversamente Gehlen, come ogni buon filosofo tedesco, ha un’attrazione irresistibile per l’ineffabile. Ai suoi occhi l’uomo delle origini non ci è accessibile per immedesimazione in quanto nulla nella nostra esperienza rimanda al suo mondo. Di conseguenza, l’indagine acquisisce un valore soprattutto differenziale, per marcare la distanza fra una modernità incentrata sul razionalismo volontarista e il primato della soggettività individuale e un’origine di cui si è smarrito il senso passando per le grandi svolte del monoteismo e del disincanto del mondo.

Lo spirito oggettivo

L’uomo delle origini e la tarda cultura si propone l’elaborazione di una filosofia delle istituzioni. In proposito, Gehlen non esita a chiamare in causa Hegel, un classico a lui molto distante dal punto di vista teorico. L’analisi antropologica delle istituzioni, infatti, ci condurrebbe allo «spirito oggettivo», mostrando come «gli ordinamenti prodotti dall’uomo si rendono autonomi e si trasformano in una potenza che fa valere le sue leggi fin dentro i loro cuori». In tal senso, le forme di soggettività appaiono sempre indissociabili dai dispositivi istituzionali che le producono e che, a loro volta, da esse sono tenuti in vita. L’uomo, essere plastico e istintualmente indeterminato e, per questo, pulsionalmente in eccesso, necessita di stabilizzazione. E ciò può avvenire solo tramite esoneri, tramite le esternalizzazioni interiorizzate offerte dalle istituzioni.
La sequenza storico-tipologica che emerge dall’esperienza dell’uomo delle origini conduce dalla rappresentazione al rito, e da questo all’abitudine e all’istituzione attraverso un complesso gioco in cui la routinizzazione delle pratiche conduce alla loro autonomizzazione dai fini originari e all’emergere in primo piano di effetti secondari.
Varie sono oggi le motivazioni che spingono a un rinnovato interesse per la tematica delle istituzioni. In primo luogo si potrebbe citare la crisi del «portatore» per eccellenza delle istituzioni della modernità nazionale-internazionale, lo stato, che subisce la crescente concorrenza di fonti del diritto e principi di organizzazione/legittimazione dell’azione individuale e collettiva di carattere sub o sovranazionale, spesso private o di incerto statuto.

L’aiuto inatteso

Correlato appare il tema dell’incapacità di incidere sui processi e le dinamiche in atto della politica e del volontarismo giuridico incentrato sulla figura dello stato. A fronte di ciò, negli ultimi anni si è molto parlato, a partire da differenti prospettive, di governance, di istituzioni cosmopolite, di nuovo localismo, di diritto alla città, di istituzioni del comune. In sintesi, la crisi delle figure della rappresentanza politica e dei corpi intermedi pone all’ordine del giorno la questione della creazione di nuove istituzioni. In tale ottica, l’approccio antropologico-filosofico e il viaggio verso le origini di Gehlen, proprio per la sua distanza da ogni prospettiva filosofico-giuridica imperniata sulla sovranità, può senza dubbio offrire numerose suggestioni e sollecitazioni, al di là delle intenzioni politiche dell’autore.