La personalità di Man Ray è misteriosa e sfuggente esattamente quanto le sue fotografie (comprese le pitture e le sperimentazioni cinematografiche). Anche un identikit col passaporto alla mano risulta vaporoso. Ostico da inquadrare, come scrive acutamente Janus nel catalogo edito da Skira della grande mostra apertasi a Villa Manin di Passariano (visitabile fino all’11 gennaio), Man Ray non si riesce a ricordarlo come americano, tantomeno come parigino. Era ebreo senza professare la fede e surrealista solo se lo si lasciava in pace. Pure il suo nome risultava diverso all’anagrafe: Emmanuel Radnitzsky era nato a Filadelfia nel 1890 da una madre e un padre emigrati per motivi economici, che in America sbarcavano il lunario facendo entrambi i sarti.
Quel pirata di vascelli visivi che conosciamo come Man Ray ha attraversato un secolo che ribolliva di intelligenza, attingendo a al suo dna a mosaico che prevedeva anche «pezzi» di Bielorussia e Ucraina (le terre di provenienza dei suoi genitori).
L’antologica di Villa Manin (Codroipo, Udine), a cura di Guido Comis eAntonio Giusa, porta in Italia circa trecento opere, tra fotografie, oggetti, collage, dipinti, disegni e film sperimentali, rivolgendo una attenzione speciale alla comunità di artisti e amici che Man Ray frequentò nelle sue vicissitudini biografiche, quelle che lo condussero da New York a Parigi e poi, con l’occupazione nazista, ancora verso gli States, questa volta in fuga. La carrellata di ritratti proposti rappresentano una summa affettiva della storia delle avanguardie del Novecento. Non solo in arte, ma anche nella musica, nella letteratura e naturalmente nel cinema: si va da Schoenberg a Ejsensteijn fino a Picasso, Matisse, Picabia, Richter, Brancusi, De Chirico, Cocteau, Eluard, Meret Oppenheim: una specie di hit parade delle menti più brillanti del secolo.
«Piuttosto che offrire una immagine convenzionale di paesaggio, preferisco prendere un mio fazzoletto, torcerlo come voglio e fotografarlo come mi pare», diceva Man Ray per spiegare i suoi voli fantasiosi verso forme «impresse» direttamente sulla carta e profondamente oniriche. Ai suoi studenti, d’altronde, consigliava spesso di buttare via la macchina fotografica e continuare a immaginare soggetti in piena libertà. Se non fosse approdato all’arte, confermò in più di un’occasione, sarebbe senz’altro diventato un gangster. E con quella attitudine, in effetti, procedeva nei confronti dell’accademia e delle regole. Era un sovvertitore purissimo in grado di cogliere l’imprevisto come una benedizione. Nella sua Autobiografia, Man Ray racconta come nacque la tecnica dei rayogrammi: «Posavo il negativo in vetro su una carta fotosensibile alla luce di una piccola lanterna rossa, poi per qualche secondo accendevo la lampada a soffitto e sviluppavo le stampe. Fu proprio praticando questo metodo di stampa che arrivai al mio processo ‘rayografico’, ovvero alla fotografia senza macchina fotografica. Un foglio di carta sensibile intatto, finito inavvertitamente tra quelli già esposti con sopra il negativo (…) era stato sottoposto al bagno di sviluppo. Mentre aspettavo che comparisse un’immagine, rimpiangendo lo spreco di materiale, con un gesto meccanico poggiai un piccolo imbuto di vetro, il bicchiere graduato e il termometro nella bacinella sopra la carta bagnata. Accesi la luce: sotto i miei occhi cominciò a formarsi un’immagine. Non una semplice silhouette degli oggetti, ma un’immagine deformata e rifratta dal vetro…». Ai readymade dell’amico carissimo Duchamp, oppose i suoi fantasmi, le tracce di oggetti quotidiani che si straniano fino a trasformarsi in presenze sconosciute. L’idea di fondo è la stessa. Basta sapere cogliere il rovesciamento improvviso della realtà offerto dal caso. In pittura come in fotografia l’astrazione convive con il soggetto ripreso: da una parte, c’è la poetica dada dell’hasard come fonte creativa, dall’altra quella surrealista dell’inconscio premonitore, invisibile contenitore di archetipi. Man Ray gioca con l’uno e l’altro, senza mai appartenere a un genere preciso. Anche nei riguardi del cinema, l’atteggiamento non cambia. «Mi procuravo un rullo di pellicola di una trentina di metri, mi installavo in una camera oscura dove ritagliavo la pellicola a piccole strisce che attaccavo con delle spille sul mio tavolo di lavoro. Cospargevo alcune strisce con sale e pepe (…) sulle altre strisce, gettavo, casualmente, degli spilli e delle puntine..». Sperimentatore infaticabile anche in questo campo, fallì il primo tentativo di film stereoscopico, così come andò a vuoto la seconda prova, quel girato in cui l’artista radeva i peli pubici della baronessa Elsa Von Freytag-Loringhoven, eccentrica signora vicina ai dadaisti. Secondo Man Ray, il film venne distrutto in fase di sviluppo, volutamente.
Irriverente, pescava anche dallo scrigno dei maestri dell’arte: Le Violon d’Ingres è un divertito omaggio – il titolo in francese significa hobby, passatempo – al grande neoclassico, rivisitato con la schiena e il posteriore nudo di Kiki de Montparnasse, all’epoca sua amante. Un corpo trasformato da due «effe» in un languido strumento musicale.