«In Inghilterra i ragazzi delle scuole bevono ogni mattina mezzo litro di latte. In Italia bevono latino», si lagnava il liberal-socialista Guido Calogero nel 1955. Di lì a poco il latino sarebbe stato ridotto e poi azzerato alle medie inferiori. E si narra che il banditore comunale di una città sarda annunciasse la bella nuova così: «il latino è morto, Deo gratias!». Se non è vero, è indovinato.

L’istruzione classica italiana è ormai unica nel mondo. All’estero ce la invidiano, ma in Italia periodicamente la si attacca. E fruga fruga, dietro ogni attacco c’è l’argomento del «mezzo litro di latte»: l’utile contro l’inutile, il pratico contro il teorico. Lo dimostra l’odierno dibattito sul liceo classico, innescato da un preoccupante calo di iscrizioni: dal 10% del 2008 al 6% di oggi. Specie al Centro-Nord ci si converte allo scientifico o ai nuovi licei del carnet Gelmini. Crisi passeggera o svolta epocale? Occorre rassegnarsi o rilanciare? Calogero, sessant’anni fa, se la prendeva con la versione in latino a favore della versione dal latino, e della lettura dei testi originali. Sono i consigli che i nostri licei hanno seguito, con beneficio di tutti. Oggi i critici del classico vanno ben oltre, e fingendo che nella didattica nulla sia cambiato invocano l’abolizione della versione o un suo ridimensionamento drastico: testi più brevi, da scegliersi in una rosa come si fa con i temi, e corredati da domande di cultura generale.

Dato che la maturità è prossima, immaginiamoci la scena. Cinque versioni a scelta: come comporrà la cinquina il Miur per garantire prove equipollenti? Bel grattacapo. E come sceglierà la sua prova lo studente? Sulla fiducia, perché si sa che Cesare e Senofonte sono facili, Tacito e Tucidide difficili? O traducendo a tentoni le prime righe di cinque testi? O verificando la disponibilità delle soluzioni su Studenti.it? E le domande a corredo? Due le forme possibili, una peggio dell’altra: il desolante quiz, o il commento libero, che a sua volta o è chiacchiera, o è una prova di dottorato.

Ma vedremo: delle proposte concrete si discuterà quando arriveranno. Per ora nel dibattito prevalgono gli slogan. C’è chi ripete la solfa «il liceo classico è di classe», scuola figlia del fascismo, per figli di papà; e allora la deduzione ovvia sarebbe: facciamo di ogni scuola un liceo classico, come ha proposto provocatoriamente Paola Mastrocola. C’è chi prescrive più cultura, meno grammatica: che è come proporre meno numeri, più equazioni; «levatemi di torno la grammatica!», diceva il «signor Stolto» di Goethe. C’è chi difende l’umanesimo come valore sempiterno: e siamo alla solita classicità culla della democrazia, della filosofia e di tante altre cose belle (non anche del razzismo, dello schiavismo, del sessismo?). Il dibattito è acceso, ma stagna un po’, fra argomenti triti di cui sarebbe facile tracciare la monotona storia.

Come vaccino contro gli stereotipi si può consigliare il Processo al liceo classico, a cura di Ugo Cardinale e Alberto Sinigaglia (il Mulino, pp.168, euro 15). Tocca qui ad Andrea Ichino sostenere il ruolo dell’accusa e imputare al liceo classico la sua iniquità di classe. Bel paradosso: «Gracco che si lamenta dei disordini», direbbe Giovenale, essendo ben noto l’egualitarismo di Ichino. L’economista sciorina dati: i diplomati del classico crollano al test di scienze della Normale di Pisa e al test di medicina dell’università di Bologna. Peccato che a Ichino dia una bella lezione di statistica Gabriele Lolli, matematico alla Normale, denunciando l’uso grossolano di dati parziali. Si può aggiungere che a Bologna i diplomati del classico iscritti a Medicina battono i colleghi dello scientifico per media di voti, voto di laurea e addirittura regolarità di studi. Come mai?

Ma a Ichino rispondono fra gli altri Umberto Eco (a lui il libro è dedicato), Luciano Canfora, Ivano Dionigi. Eco insiste sull’ideale di un classico-scientifico a tutto tondo, che integri senza dimidiare. Canfora difende la traduzione come pratica insostituibile, «non una penitenza fondata sul difficile raggiungimento di una traduzione unica e vera, ma un divertimento problematico». Dionigi deride lo sciocco teorema del latino di destra, dell’inglese di sinistra, e loda l’alleanza di scienze e studi umanistici in nome del comune metodo; di più: del comune impegno civile. Non meno istruttivo l’intervento di Adolfo Scotto di Luzio, che ricorda «agli sprovveduti di studi storici» quanto fu avversata in seno al fascismo la riforma Gentile, e quanto sia fascista l’istituzione della ’scuola del lavoro’, il cui più caloroso elogio recente, contro il liceo tutto, dobbiamo al ministro Profumo.

Ma testimonianze preziose, affidate al dossier iniziale, vengono da decine di licei italiani. Come ci ricorda Cardinale, è la riforma Gelmini che ha radicalizzato la polarità classico-scientifico. È la riforma Gelmini che ha cancellato le sperimentazioni matematico-scientifiche e ha ridotto di fatto le potenzialità formative dei licei classici. Riflettiamoci. Un liceo classico non di classe, e magari anticlassista per vocazione, riparte di qui: da esperienze didattiche concrete, coraggiose e fruttuose. Altrimenti rimarranno solo le sparate demagogiche e le riforme improvvisate; rimarrà solo l’argomento del «mezzo litro di latte»: da servirsi oggi, preferibilmente, con i biscotti.