Il compositore inglese Henry Purcell non si recò mai in Italia né mai visitandola avrebbe potuto conoscere lo splendore di Villa Rufolo a Ravello, come a metà Ottocento la reinventò il magico restauro dello scozzese Francis Neville Reid. Per due sere tuttavia, grazie al Ravello Festival, Antonio Florio e la sua Cappella Neapolitana, il regista Denis Krief e un manipolo di cantanti-attori hanno sottratto all’incantesimo wagneriano i luoghi del wagneriano giardino di Klingsor per assegnarli al più benigno regno Shakespeariano delle fate. La frammentarietà strutturale di The Fairy Queen, masque composto da Purcell nel 1692 su un rimaneggiamento anonimo del Sogno di una notte di mezza estate di Shakespeare, si adattava alla perfezione al fantasmagorico percorso di apparizioni e teatri notturni, disposti in vari angoli della villa con estro e inventiva da Denis Krief, nelle due recite del 23 e 24 agosto. Celati in un portico della villa e visibili solo alla conclusione del percorso, Florio e la Cappella Neapolitana, spandevano per i giardini la musica che, grazie alla curatissima regia del suono di Tempo Reale, avvolgeva mura, piante, artisti e pubblico itinerante.

Una fatagione continua e sorprendente, il cui notturno alito mediterraneo esaltava il connubio fra ambientazione greca e mondo del mito anglosassone dei testi: ecco dunque le bellissime danze, cui il pubblico era spesso invitato, gli intermezzi comici ( spassosissimo il secondo, le schermaglie amorose degli attempati Corydon e Mopsa condotte fra scale e pergolati ) e i passaggi di sublime malia musicale, come le quattro pagine notturne della notte, del segreto, del mistero e soprattutto l’aria del sonno e la dolcissima aria del lamento, intonata fra cipressi e pini. Poi il finale, un gioioso accendersi canoro delle finestre della villa, la festa di Oberon e lo sposalizio degli innamorati celebrato nel giardino da Imene cuoco, con l’offerta di una gran torta nuziale ai cantanti e ai musicisti – tutti bravissimi – e infine al pubblico festosissimo e inebriato.

Non abbastanza da riuscire a godere del privilegio della festa senza brandire telefonini e persino enormi tablet, per catturare selfie, foto sghembe, sparando anche i flash sul viso dei cantanti. Urge un richiamo all’etichetta e va recuperata la concentrazione, la stessa che, vincendo il vento dispettoso, ha saputo distillare Alexander Lonquich, nell’esecuzione dei concerti per pianoforte e orchestra di Beethoven (in due sere, il 25 i primi tre e il 26 gli ultimi due, sempre a Villa Rufolo, sul palco del belvedere), riproponendo con l’ottima Munchner Kammerorchester la lettura asciutta, dal disegno nitido ma perentorio per forza drammatica, già affinata con i complessi di Mantova in numerose esecuzioni. Il pianista tedesco – classe e tecnica sempre impeccabili – ha mantenuto costante la tensione nel dialogo con la compagine orchestrale, capace a tratti di far dimenticare, per compattezza di suono, l’ambientazione all’aperto.

Oltre alla gioia dell’ascolto i concerti valevano più di un corso universitario nell’esemplificare l’evoluzione della forma concertistica dai modelli mozartiani e haydniani, nel maturare dell’approccio personale e rivoluzionario di Beethoven, apparso a ogni concerto nuovo e fresco. Successo pieno premiato con bis in carattere, l’esaltante Ausfchwung schumanniano.