Vent’anni dopo, si torna a Mantova con uno spirito simile a quello della prima volta, con stupore e gratitudine, ma ben diversamente radicati. A motivarli, una sorta di ribaltamento del tavolo sul quale si erano scoperte, allora, le proprie carte, ovvero le credenziali del buon critico che esibiva, a fronte dell’evento mediatico, esercizi di ascetiche letture, sacri ardori in difesa della autonomia del testo, professioni di irrilevanza dell’autore. Ancora stregati dalle parole di Barthes e di Foucault, andavamo ripetendo: tutto quel che conta è nel libro, che importa chi parla? Belle parole, encomiabili intenti, roba da modernariato della critica che prima o poi si spera tornerà di moda; ma intanto, quel che si svolge di fronte al pubblico di Mantova ha la nobiltà di una magnifica illusione, come se non ci fossero altro che l’autore e i suoi lettori, come se tutto ciò che conta si svolgesse sul palcoscenico, e non tramassero mediatori dietro le quinte, come se in questi anni la scena editoriale non fosse cambiata tante volte da rendersi irriconoscibile, e tutto fosse congelato in una gratuità di intenti che non si è peraltro mai vista né mai data.

Persino Tito Pomponio Attico, probabilmente il primo editore dell’antichità, benché di vasta cultura e di ingenti risorse finanziarie, non disdegnava trattative da mercante, e se decretò la fortuna dell’amico Cicerone lo fece in cambio di una esclusiva sulle sue opere. I secoli volano e, a dispetto del tempo e delle attuali doléances, non molto è cambiato: benché Balzac certamente calcasse la mano sulla cupidigia di Dauriat, il ritratto che ci restituisce, nelle Illusioni perdute, di questo speculatore di nouveautés, che per esaminare il migliaio di manoscritti in arrivo ogni anno sul suo tavolo aveva messo al lavoro un intero dipartimento di archiviazione e uno staff editoriale alloggiati nel suo ufficio al Palais Royal, non si discosta da quello di molte figure di editori moderni, solo agevolati dalle risorse che la tecnologia mette loro a disposizione.

Certo, se ce ne fosse anche solo uno disposto e emulare l’editore tedesco Göschen, che nel 1821 si impegnò a pagare un ducato per ogni errore di stampa della sua edizione di Omero, potrebbe inaugurarsi una nuova nobile gara, ma nulla lascia sospettare che una simile figura si acquatti dietro le quinte.

Ben venga, dunque la naïveté di un ascolto irretito dalla presenza dell’autore, a fronte della quale persino i cortei carnevaleschi al centro della città diventano tollerabili, e ammirevole l’accalcarsi della folla sull’acciottolato sconnesso dei cortili che immettono alla imponenti corti dei Gonzaga, le code fluviali per l’autografo, i flussi migratori tra un appuntamento e l’altro.

Non ci si aspettava dalla letteratura che scatenasse una simile bagarre, ma ormai che i giochi sono fatti e le armi della critica tacitate dal fragore della festa, tanto vale abbandonarsi alla volontà generale e farsi contagiare dall’entusiasmo, imparare a meravigliarsi, dismettere gli abiti dello scetticismo e domandarsi, piuttosto, quali effetti avrà tutto ciò non sulle vendite dei libri, unico capitolo sempre mestamente aggiornato, ma sulla ricezione dei testi, qualcosa di meno facilmente quantificabile ma di più radicalmente capace di contagiare le future abitudini alla lettura.
«Forms effect meanings» suona la famosa affermazione nella quale Donald McKenzie sintetizzava l’evidenza per cui, soprattutto in campo editoriale, le forme producono significati. Lungi dal confrontarsi con mere astrazioni del pensiero, i lettori maneggiano innanzi tutto dispositivi che, in forma di libro cartaceo o elettronico, hanno una ricaduta sull’inconscio della loro ricezione: a maggior ragione quando questo testo lo ricevono in forma di recitativo, dalla voce stessa dell’autore.