La filosofia politica contemporanea sembra attraversare una fase di transizione. Dopo il successo di grandi teorie normative come quelle di John Rawls e Jürgen Habermas, che hanno segnato fortemente le discussioni degli ultimi vent’anni, si comincia a diffondere l’insoddisfazione per questi approcci troppo caratterizzati in senso ideale. E si avverte il bisogno di pensare in modo più concreto e realistico il rapporto tra i principi valoriali e le dinamiche effettive. A questa esigenza dà voce, in modo originale e molto articolato, il volume di Lea Ypi Stato e avanguardie cosmopolitiche (Laterza, pp. 326, euro 29).

A dire il vero, sembra che l’editore si sia spinto un po’ troppo oltre nell’assecondare la pulsione anti-normativa, infatti il titolo originale dell’opera, uscita presso Oxford University Press, era Global Justice and Avant-garde Political Agency; in quello italiano, invece, il riferimento alla «giustizia globale» non si trova. Si tratta comunque di un lavoro assai interessante, opera matura di una studiosa brillante che, formatasi prima a Roma e poi all’Istituto Europeo di Fiesole, insegna ora teoria politica alla London School of Economics.

In virtù della dialettica

Una delle scelte qualificanti del testo è quella di distanziarsi criticamente tanto dagli approcci puramente ideali alla filosofia politica, quanto da quelli troppo «realistici», che, scettici sull’efficacia dei principi, finiscono per accomodarsi fin troppo bene con il mondo quale esso è. Lea Ypi, invece, cerca un terza via, che sia capace di prendere il buono degli uni e degli altri, e la qualifica con il nome accattivante di «teoria politica attivista».
Nei confronti degli approcci «ideali» l’obiezione è quella di irrilevanza: a che serve possedere buoni principi, se poi questi sono slegati dalle dinamiche reali e dalle forze capaci di tradurli in pratiche di trasformazione sociale? Per evitare sia la sterilità delle teorie ideali che l’adattamento al peggio conseguente a quelle realistiche, Lea Ypi propone un approccio che chiama «dialettico».

Anziché prendere le mosse da principi elaborati sul terreno del puro ragionamento teorico il pensiero politico deve quindi partire, secondo Ypi, dall’analisi delle strutture esistenti, delle idee che queste incorporano e, al tempo stesso, delle contestazioni cui queste sono soggette. E a partire da qui deve sviluppare proposte trasformative, che sono tali in quanto non costituiscono una mera esercitazione intellettuale, ma si legano a conflitti esistenti e interagiscono con avanguardie già presenti o in corso di formazione nella società. Il teorico attivista, dunque, concentra la sua attenzione «sui momenti di sfida e contestazione a un dato ordine politico-istituzionale e ai suoi fondamenti normativi» e sui gruppi che danno vita a questi conflitti e che in tal modo concorrono con il teorico alla formulazione di nuovi e più avanzati principi normativi. L’elemento dialettico, per dirla in modo semplice, sta appunto nel fatto che i principi non sono dati una volta per tutte, ma vengono elaborati mediante la critica dell’esistente attraverso processi storici dinamici, che passano anche attraverso prove ed errori.

Egualitari e statisti

A partire da questa impostazione innovativa (che è anche un ritorno a Hegel dopo un periodo prevalentemente kantiano) Ypi affronta poi la questione di contenuto cui il suo libro è dedicato, e cioè quella della «giustizia globale». Anche qui, la via percorsa è originale. Nel panorama teorico odierno, la disputa oppone i cosmopoliti, cioè quelli che ritengono valida anche per il livello globale un’idea di giustizia egualitaria, agli «statisti», cioè quelli che pensano che sia giusto supportare le popolazioni più povere affinché esse raggiungano un livello di risorse sufficienti per vivere, ma non oltre.

Nel gergo un po’ astruso della filosofia politica anglofona, il conflitto vede scontrarsi i sostenitori dell’egualitarismo globale con i difensori dei «principi sufficientari»; da una parte quelli che vogliono combattere solo la «povertà assoluta», cioè le condizioni di vera e propria deprivazione, dall’altra quanti ritengono che si debba contrastare anche la «povertà relativa», cioè le grandi disparità di risorse tra i popoli del mondo, anche nel caso in cui coloro che hanno di meno non muoiono di fame. Ypi propone di risolvere il confitto attraverso un ragionamento che funziona in questo modo: se si studiano le dinamiche della distribuzione globale della ricchezza, dice, emerge che tra povertà assoluta e povertà relativa vi è un nesso causale, cioè che sono esposti al rischio della povertà assoluta coloro che vivono negli Stati che godono di condizioni relativamente meno positive.

Un problema di potere

È proprio il divario relativo di ricchezza e soprattutto di potere tra le nazioni che genera, per chi vive negli Stati meno ricchi e meno potenti, il rischio di cadere nella assoluta deprivazione. Insomma, per contrastare l’indigenza (obiettivo che tutti condividono) non bastano misure assistenziali; bisogna cominciare a cambiare gli equilibri di potere che vigono a livello globale. Ed è questa appunto la funzione di quelle che Lea Ypi chiama le «avanguardie cosmopolitiche»: movimenti sociali, organizzazioni della società civile, attori politici che contestano le diseguaglianze di ricchezza e potere che si sono accresciute nell’età neoliberista. Anche se cosmopolitiche nei fini, però, queste avanguardie, secondo la visione di Ypi, hanno il loro terreno d’azione innanzitutto all’interno delle comunità statali esistenti; e perciò l’autrice definisce la sua prospettiva un «cosmopolitismo statista». Anche questo è un modo per bilanciare proiezioni ideali e concretezza reale: finché gli Stati restano un attore primario sulla scena globale, non si può prescindere da essi neppure per realizzare quelle finalità che guardano ben al di là degli orizzonti nazionali.