L’invito a accogliere i migranti lanciato dal presidente della giuria Alfonso Cuarón durante la serata di inaugurazione sembra che non sia piaciuto per niente al neosindaco di Venezia Brugnaro, ma certo mentre le foto dei bambini che il mare restituisce cadaveri fanno il giro del mondo le parole del regista messicano suonano senza retorica ancora più forti.
Di bambini condannati alla violenza parla anche Beasts of No Nation – che ha aperto il concorso – di Cary Fukunaga, divenuto una star mondiale dopo il successo di True Detective (appena finita la conferenza stampa sono scattati i selfie). Che ha anche un’altra specificità: sarà il primo film distribuito solo sul web da Netflix, cosa che ha già aperto numerose dissertazioni sul futuro probabile o improbabile del cinema. Esisterà ancora la sala? O si va verso la sua sparizione? E via dicendo senza considerare che ormai la maggioranza dei più giovani sono cinefili on line, scaricano i film ecc., e poi proprio una serie tv come True Detective dimostra che gli schermi sono ormai una questione di formato. Poi c’è il rito della sala ma questa è un’altra storia.

 

 

Beasts of No Nation racconta la storia del piccolo Agu, ragazzino in un villaggio africano, uno dei tanti sconvolti da guerre civili e massacri da cui scappano i migranti che vengono respinti. Vive in una zona cuscinetto, risparmiata dalle armi, coi fratelli, gli amici, il padre è maestro e si occupa dei profughi a cui ha regalato la sua terra per viverci (altrochè l’Ungheria di Orban) la madre li alleva con amore, e lui Agu interpretato dal fantastico Abraham Atta già Coppa Volpi, è pieno di fantasia, inventa televisori dell’immaginazione e vive per guadagnare razioni di cibo o qualche soldo. Finché la guerra arriva anche lì, la mamma e fratellini più piccoli riescono a scappare, lui rimane col padre e il fratello maggiore, ma quando arriva l’esercito al potere li uccide accusandoli di essere ribelli. Agu fugge nella giungla e finisce in un esercito di bambini come lui. Sono implacabili, armati, macchine da combattimento senza paura, li guida un Comandante (Idris Elba) , seduttivo e osceno al tempo stesso, figura paterna di padre-padrone che può disporre dei loro corpi come della loro mente. Educa Agu spaventato e solo, e lo trasforma in un’arma.

 

 

Il punto di partenza è il romanzo d’esordiondi Uzodinma Iweala in cui si ricostruisce la terribile iniziazione alla guerra di un ragazzino. Iweala è nigeriano ma appunto nella narrazione non viene indicato un Paese preciso, anche perché quello dei bambini soldato è un abuso che ricorre in diversi stati, Sierra Leone o Liberia, e ovunque il tempo della guerra modella su di sè le pratiche della vita (anche la Germania alla fine della seconda guerra mondiale usava bambini soldato).
La narrazione coincide interamente col punto di vista del ragazzino, la sfida delle immagini è dunque quella di entrare nella sua testa, vedere le cose con i suoi occhi mantenendo la distanza di un racconto alla prima persona e insieme «a posteriori», una sorta di realismo obliquo e allucinato.

 

 

Per questo Fukunaga sposta il piano della realtà in una dimensione da favola nera, universo popolato da orchi e creature crudeli, in cui le esperienze di Agu si sgranano in forma lisergica.
Riti feroci, promesse e menzogne, stordirsi con le droghe per non sentire il dolore, i ragazzini attraversano una terra di morte, sparano, uccidono, Agu esita un attimo prima di spaccare col machete la testa a un prigioniero, e poi prega Dio, e infine parlerà solo con la madre perché Dio non lo ascolta più. E più si immerge nel delirio folle della morte, più va verso l’astrazione orrorifica, in cui il sangue diventa un fiume e l’iperrealismo della morte a ripetizione una bruttissima serie tv. E però Fukunaga non va fino in fondo, non sceglie nettamente le fantasmagorie dell’horror, la metafora, ma oscilla verso riferimenti «reali», sigle politiche, dissertazioni sulle strategie dei gruppi che tradiscono sempre gli interessi del popolo. Sarà questo a causare il disagio che si prova alla fine della proiezione? E non è questione di scandalizzarsi, la violenza è astratta anch’essa come il sangue sul set. È piuttosto un problema di sguardo e di scelte di campo (e controcampo). Una cosa non da poco.