Fin dal suo secondo lungometraggio Slacker (Sundance 1991), Richard Linklater ha fatto del tempo una delle ossessioni del suo cinema, sempre instancabilmente a caccia della realtà che sborda tra un’inquadratura, quella che la precede e quella successiva, tra le parole dei dialoghi fiume che usa così spesso, nel rifiuto di ingabbiare convenzionalmente le sue storie nei confini dello schermo, di un genere, della dicotomia documentario /fiction. In Slacker, Dazed and Confused e Waking Life Linklater aveva lavorato su un’idea sospesa, sincronica del tempo. La trilogia Prima dell’alba (Before Sunrise, 1995), Prima del tramonto (Before Sunset, 2004) e Before Midnight (2013), gli ha permesso di esplorarlo anche nel suo svolgersi, contemporaneamente fuori e dentro allo schermo. Prima del tramonto e Tape (un tour the force del 2001, ambientato in una stanza di motel con Uma Thurman, Ethan Hawke e Robert Sean Leonard che discutono ricordi di liceo) si svolgevano in tempo reale.

Girato in trentanove giorni, distribuiti nell’arco di dodici anni, Boyhood porta ancora più in là quell’esperimento. Diversamente da Michael Apted che, nella sua serie di documentari Up (sette episodi, tra il 1964 e il 2005) ogni sette anni intervistava i suoi quattordici protagonisti, Linklater si è riunito con il suo cast e troupe ogni anno, per qualche giorno di riprese, in cui il passare del tempo veniva incorporato organicamente nella sceneggiatura; anche quella firmata dal regista. «Non c’è nulla di documentario. É una storia», ha detto spesso Linklater.

Al centro di Boyhood, come suggerisce il titolo, sono l’infanzia e l’adolescenza di un bambino texano, e la sua famiglia. Complici nel progetto Ethan Hawke e Patricia Arquette, il giovane attore Ellar Coltrane e la figlia del regista, Lorelei Linklater. Con loro Linklater ha progressivamente aggiornato la sua storia «in corsa», grazie a una collaborazione/conversazione non dissimile da quella impostata con Ethan Hawke e Julie Delpy, e che ha segnato l’evolversi della trilogia dei Before.

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Incontriamo Mason (Coltrane) per la prima volta a sette anni. Il suo mondo è fatto di una madre che si chiama Olivia (Arquette), affaticata e desiderosa di una vita migliore, di Samantha, una sorella maggiore che lo snobba (Linklater), e di un padre simpatico e completamente inaffidabile (Hawke) che vuole recuperare il rapporto con figli dopo anni che non vive più con loro e li vede pochissimo.

I piccoli scazzi a scuola, i momenti di contemplazione/confusione solitaria, la corse in bicicletta, il dolore di lasciare indietro gli amici e l’universo conosciuto, quando la mamma decide di impacchettare tutto e trasferirli da Austin a Houston, dove vuole studiare psicologia e trovare un lavoro meglio pagato e più interessante. Il mondo del film è visto attraverso gli occhi di Mason e, attraverso i suoi occhi, noi viviamo il suo prendere coscienza di se stesso. Che è poi il «crescere».

Linklater tratteggia il quotidiano del ragazzo e dei suoi famigliari a pennellate sicure e prive di sentimentalismo. Nel suo sguardo si sente l’amore per Truffaut (I 400 colpi è un chiaro punto di riferimento), ma filtrato da un pudore, quasi un’austerità che sono molto made in Usa. Non sorprende infatti che tra i fan dichiarati di questo regista ci sia anche Fred Wiseman.

Ogni volta che rincontriamo la famiglia dopo un certo lasso di tempo, i personaggi sono sempre leggermente diversi – più maturi o problematici i ragazzini, più sicura di sé la madre, più addomesticabile Mason Sr. che torna dall’Alaska a bordo di un’auto sportiva nera che fa molto «giovane» e va a vivere a Houston anche lui. Amanti e fidanzati/e dei genitori si succedono, prima o dopo arriveranno anche i primi flirt dei ragazzi. Quando Olivia, diventata professore d’università, trova un uomo decente lo sposa, ma poi lui si rivela pessimo e la famiglia si restringe, per poi riallargarsi di nuovo.

Intorno ai personaggi che vanno e vengono, si intravedono con la coda dell’occhio Harry Potter, la guerra in Iraq, i gadget che cambiano, Britney Spears, la campagna presidenziale 2008 in cui Mason Senior e Junior disseminano cartelli «vota Obama» nel territorio ostile di Karl Rove e George W. Bush. Alla colonna sonora (importante in questo film quasi quando quella vintage di Dazed and Confused), si alternano Arcade Fire e Coldplay, Cat Power, Paul McCartney e i Flaming Lips.

Linklater si muove tra una nuova realtà e l’altra dei personaggi senza bisogno di spiegazioni o di psicologismi. Confonde i riti di passaggio obbligati del romanzo di formazione alla banalità di tutti i giorni, lasciando spesso i momenti più convenzionalmente «drammatici» della storia (per esempio la separazione dei genitori) fuori campo. Perché, come dice: «Avevo sviluppato un’allergia nei confronti di quei passaggi della fiction che abbiamo visto tutti così tante volte che non sai c’è più nulla di interessante da aggiungere. Dopo tutto, quando penso alla mia ’graduation’, non penso alla cerimonia in cui mi hanno consegnato il diploma. Ma al dopo, quando mi sono ritrovato in macchina con i miei amici».

La sua e un’aderenza totale al flusso della vita così come viene, perché in essa non c’è niente di ordinato, prevedibile, sicuro: «We just wing it», improvvisiamo andando avanti, spiega ridendo al figlio Mason Sr. verso la fine del film, quando ha ceduto la macchina sportiva per un minivan, ha messo su famiglia anche lui e tollera due suoceri iperconservatori ma gentilissimi. È diventato, insomma, l’uomo responsabile che Olivia avrebbe voluto – solo che quindici anni troppo tardi.

Se i corpi e i volti di Arquette e Hawke riflettono, con dolce malinconia, il passare degli anni, quella di Mason è una metamorfosi che ti scorre davanti agli occhi. Cuore e guida del film, sboccerà quando stiamo per lasciarlo, a diciannove anni, in un classico personaggio «alla» Linklater, acuto, introspettivo e loquace. Boyhood esiste in un equilibrio miracoloso tra il suo presente e la sua memoria: mentre lo vediamo succedere davanti a noi è come se lui ce lo stesse già raccontando.Girato in 35 millimetri, prodotto completamente al buio da IFC che accettò di finanziare la spericolata impresa dodici anni fa, Boyhood è un film che dura quasi tre ore, ma si vive come un’esperienza stringatissima, essenziale. Non ha nulla della slabbratezza che spesso si deduce dal basso costo di girare in digitale. E in questa sua disciplina completamente libera e specialissima stanno il punto di partenza e di arrivo di tutto quello che Richard Linklater ha fatto fino ad oggi.