Nonostante fosse estate piena e le giornate fossero lunghe e assolate, quel ventisette luglio del 1944 il cielo si oscurò d’improvviso e fra i rombi assordanti degli aerei piovvero bombe alleate dal cielo. Una scheggia colpì le travi del tetto del Camposanto pisano, che prese fuoco. Le fiamme incenerirono il legno e le macerie, miste a piombo fuso, si abbatterono sui muri sottostanti, travolgendo le pareti animate da una serie di affreschi che narravano storie di vita e di morte, come si addiceva al luogo, un’architettura medievale nata per accogliere il culto dei defunti. Subito si strapparono i dipinti che andavano dal Trecento al Seicento, cercando di salvare il salvabile (peraltro, alcuni affreschi mostravano già segni di degrado evidenti).

RESTAURATORI E INFERNO
Tra questi, la spuntò il ciclo di Buonamico Buffalmacco che, nel suo Trionfo della morte, Giudizio Universale e Inferno, metteva teatralmente in scena i peggiori incubi di dantesca ascendenza. Questo pittore fiorentino dalla mano felice, che Vasari descrisse come unico contemporaneo di Giotto che potesse tenergli testa, della cui vita e opera si ignora molto, ebbe in sorte di diventare un personaggio letterario simbolico: incarnò la figura di briccone spensierato e un po’ malandrino a cui Boccaccio dedicò diversi racconti del Decamerone. Strano destino per un artista che ci è rimasto solo nelle sue visioni più cupe, in quel memento mori terribile dove all’amor cortese si alterna la vanità dell’esistenza terrena e la precarietà del corpo che precipita in decomposizione. Il ciclo è una delle testimonianze medievali più stupefacenti d’Italia: ha avuto una storia tormentata e non è mai tornato al suo posto originario, nella galleria sud del Camposanto.

Proprio in questi giorni si procederà alla ricollocazione in parete dell’affresco che riguarda l’inferno, mentre entro la fine del 2017 l’intero ciclo del Trionfo della Morte dovrà tornare in loco, per accogliere l’anniversario del Duomo di Pisa. Al lavoro ci sono le maestranze della Primaziale Pisana, con la direzione di Antonio Paolucci e la supervisione dei capi restauratori Gianluigi Colalucci e Carlo Giantomassi.

«Gli affreschi – spiega quest’ultimo – sono stati staccati dal supporto di eternit e messi su una superficie a nido d’ape e resine. Il problema vero, una volta tornati nel Camposanto pisano, sarà la condensa, quel rientro termico che provoca una insidiosa patina, la stessa che vediamo sui parabrezza delle macchine per capirci. Come prevenzione, si è messo a punto un sistema innovativo con dei teli scaldanti. Sono i medesimi che si utilizzano nelle gare di Formula Uno per evitare lo slittamento delle gomme. Qui, invece, portano la temperatura della superficie del colore a un grado / un grado e mezzo in più, in modo da non far formare la condensa».

particolare INFERNO
particolare dell’Inferno, appena restaurato

Ce n’è anche un’altra, però, di cirticità da affrontare. «Riguarda gli strati di colla usata come fissativo – continua Giantomassi – Alcuni sono molto antichi, addirittura precedenti all’incendio dovuto al bombardamento. Nel tempo, sono diventati irreversibili e pericolosi: provocano strappi alla pellicola cromatica. Abbiamo usato un sistema particolare, non testato prima su affreschi (ma per gli sversamenti del petrolio in mare): batteri allenati a mangiare la colla che poi vengono rimossi con uno strato di cotone e non lasciano spore in giro».

Fra i più grandi esperti di restauro, con decenni di esperienza alle spalle e un certosino lavoro in team anche con la moglie Donatella Zari (dalla basilica di Assisi, prima e dopo il terremoto, fino agli Scrovegni a Padova e il Parmigianino alla Steccata di Parma), oggi Giantomassi vede il campo del suo mestiere reso opaco da pratiche non più d’eccellenza. Fioriscono troppe scuole che non danno lavoro, mentre i restauri vengono affidati a ditte edili che vincono gare al ribasso, per fare tutto in fretta e male.

Attivo in zone di guerra in Iraq, Kosovo, Afghanistan, Libano dove non si procede per appalti, ma si va per insegnare le tecniche alle maestranze locali, Giantomassi assicura che quelle missioni in terre straniere «per formare persone di etnie e religioni diverse alla salvaguardia del patrimonio sono il miglior antidoto alla follia distruttrice dell’Isis».