«How now, what news?» (all’incirca: «Che notizie ci sono?»). Così si salutavano i personaggi di Shakespeare, che documentava in questo modo un diffuso dato sociale (e anche psicologico): l’appetito per le notizie. La formula avrebbe potuto fare da epigrafe al libro che Andrew Pettegree dedica alla ricostruzione del mondo moderno dell’informazione, L’invenzione delle notizie Come il mondo arrivò a conoscersi (Einaudi, traduzione di Luigi Giacone, XVI-pp. 536, euro 34,00). Osservare oggi, all’epoca delle news a ciclo continuo – quelle che inseguono implacabilmente i loro fruitori potenziali adattandosi magicamente alle preferenze di ciascuno – la rudimentale manifattura delle notizie nell’Europa della Riforma, delle guerre di religione e delle rivoluzioni, entrare cioè in un mondo nel quale erano gli individui a cercare affannosamente notizie discontinue e spesso poco contemporanee ai fatti, significa fare un salto culturale vertiginoso.

Superato lo spaesamento, ci si rende subito conto, tuttavia, che è possibile cogliere un parallelo. Il requiem per l’informazione su carta stampata, e per la sua forma più fortunata, il giornale, dura da un po’ ormai: ci stiamo abituando alla pluralità dei supporti sui quali le notizie viaggiano. La carta morirà sì, ma non sappiamo quando: non domani comunque. Nello stesso modo, alla metà del XVII secolo la stampa delle notizie allargava velocemente il suo raggio di azione ma conviveva ancora con altri modi di trasmissione delle novità, in forma orale e in forma manoscritta, e con altre consolidate convenzioni comunicative: il trionfo della forma-giornale non era alle porte, e, soprattutto, non era scontato: i secoli che vanno dall’invenzione della stampa, a metà del XV secolo, fino alla fine del XVIII hanno – dice Pettegree – un profilo che esibisce una qualche somiglianza con quello del nostro XXI secolo: diverso ma altrettanto multimediale.

La stampa si incuneò fra le modalità già esistenti di comunicazione, che non vanno pensate come i media della tradizione, condannati alla scomparsa. Gli avvisi manoscritti di notizie eterogenee che, in città cosmopolite come Venezia e Roma, venivano inviati regolarmente ai sottoscrittori, sono un mezzo che si diffonde alla metà del XVI secolo, anche al di là delle Alpi, e che non recede, almeno in Italia, quando la stampa periodica comincia a muovere i primi passi. E di certo, gossip, informazioni riservate, dispacci diplomatici non scomparvero perché comparve, incerta, la stampa periodica.

Il giornale costituisce così un episodio importante di una storia più lunga. In nessun modo le news del titolo del libro possono essere fatte coincidere con il newspaper, il cui primo esemplare apparve – dice Pettegree – nel 1605 a Strasburgo (tedesca all’epoca): un semplice foglio di avvisi che un certo Johann Carolus da qualche tempo pubblicava settimanalmente in forma manoscritta e di cui decise di aumentare la diffusione grazie alla stampa. Siamo nel mezzo della cronologia ritagliata da Pettegree, e alla metà quasi esatta delle pagine del suo libro.

La storia lunga della costruzione delle notizie non coincide con la marcia trionfale del giornale e del giornalismo, e nessuna linearità può essere attribuita ai modi accidentati con i quali i nuovi mezzi di comunicazione andarono emergendo. L’unica certezza è l’aumento della domanda di informazioni, fuori dal circuito delle élites politiche e economiche: fenomeno osservabile a partire dalla rottura del monopolio cattolico della religiosità cristiana. Il vero tema è dunque questo: la crescita sociale della domanda di notizie, e come ciò sollecitasse risposte in un sistema professionale dell’informazione ancora allo stato embrionale.

Detto altrimenti è lo spazio del pubblico (o della cosiddetta opinione pubblica) a essere al centro della ricostruzione di Pettegree: l’allargarsi e il complicarsi di questo spazio ben prima che le coffee-houses di Londra e i salotti parigini rendessero il fenomeno, nel primo Settecento, del tutto manifesto.

Perché cresce la fame di notizie? Le cause di tipo sociale sono ambivalenti. Si pensi alla lettura di giornali e bollettini come segno di distinzione. Perché, se non per ragioni di status, si chiede Pettegree, dei fogli pieni di notizie aride e di scarsa utilità, relative per lo più a paesi stranieri (così si presentavano i giornali periodici, specie laddove la censura era più stringente, come nella Francia di Luigi XIV o nell’Inghilterra pacificata della ‘gloriosa rivoluzione’) avrebbero dovuto attrarre l’attenzione del pubblico? Perchè se non per il gusto dell’accesso a un genere di informazioni un tempo riservate ai potenti? Vero. Ma esistevano gli opuscoli a tema e i pamphlet politici, che permettevano una lettura diversa, ben più intrigante, mentre il giornale come articolo alla moda fece la sua comparsa tardi, quando il mercato cominciava a liberalizzarsi, come nella Londra di inizio Settecento.

Le ragioni di tipo tecnologico sembrano invece più rilevanti. La stampa, ovviamente; anche se, lo abbiamo visto, passò un secolo e mezzo tra la sua invenzione e la prima comparsa di un giornale periodico. In effetti, altre innovazioni appaiono non meno determinanti: si pensi ai vantaggi di una rete postale più efficiente e fluida; e poi alla carta, senza la quale, nel mondo medievale dominato dalla pergamena, è difficile pensare come potesse essere messa in discussione la centralità assoluta della comunicazione orale.

Contarono di più le svolte politiche, tuttavia. Il libro appare delimitato dalle due grandi rotture che danno senso alla temporalità moderna (europea), Lutero e il 1789. È attorno a queste soglie che la fenomenologia delle notizie cambia logica. Nel primo caso, la polemica politico-religiosa assunse, grazie alla stampa, un segno pubblico come mai fino a quel momento era avvenuto. Che la Riforma fosse «il primo evento ripreso dai mezzi d’informazione di massa europei» è un’iperbole, com’è ovvio: non c’erano «mezzi d’informazione di massa» in Europa all’inizio del Cinquecento. Ma senza dubbio la scala di diffusione delle notizie aumentò molto, e questo incremento cambiò l’equilibrio della disputa, dato che il 90% delle opere pubblicate per l’occasione era di parte luterana. Nell’altro caso, la Rivoluzione francese inaugurò il protagonismo politico del giornalismo professionistico, in un paese nel quale per un paio di secoli la censura aveva agito più efficacemente che altrove, e nel quale – dunque – l’esplosione della pubblicistica fu particolarmente fragorosa: Parigi venne inondata di opuscoli e di giornali, perché soffiava forte il vento della libertà di espressione e perché il giornale si affermò subito come luogo privilegiato del dibattito rivoluzionario.

Qualcosa del genere, un secolo e mezzo prima, era avvenuto in Inghilterra. Negli anni quaranta del Seicento, alla vigilia della guerra civile, il ritmo delle pubblicazioni di pamphlets, fogli e bollettini si era accelerato all’improvviso, quasi in coincidenza con il precipitare degli eventi, trasformando in modo tumultuoso l’arena politica inglese (ossia londinese, per lo più). Dall’Inghilterra del primo Settecento e dalla Francia rivoluzionaria, segnate entrambe dalla rottura dell’ordine tradizionale (e di un corrispondente regime di comunicazione), sembra emergere un primo embrione di «società dell’informazione» (mentre una trasformazione più graduale, ma non meno profonda, era avvenuta in Olanda e in alcuni stati tedeschi). Cosa significa in concreto? Che la comunicazione pubblica, attraverso giornali e riviste, era divenuta una forma costitutiva delle relazioni sociali. Nell’estate del 1588 – la stampa era stata inventata da molto tempo e le comunicazioni, se necessario, potevano essere rapide – si diffuse la voce, falsa, secondo cui l’Armada spagnola avrebbe sconfitto la flotta inglese. Nel mondo più «mediatico» di inizio Ottocento un incidente di tali proporzioni sarebbe stato molto improbabile.