Rio de Janeiro è una città dove l’innocenza si perde in fretta. I poveri perché esclusi, sfruttati e aggrediti, i ricchi perché rinchiusi nelle loro fortezze vivono una Rio tutta loro, intimoriti che qualcuno possa portare loro via ciò che possiedono. Qui la gente si mescola nelle strade e nei luoghi di socialità, ma ricchi e poveri è come fossero le rotaie del treno. Percorrono le stesse strade ma non s’incontrano mai.

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Mural alla Maré (foto Ivan Grozny Compasso)

 

La crisi politica, economica e sociale si sente eccome. Le conseguenze più dirette del «golpe» che ha disarcionato la presidente Rousseff sono state la sospensione di tutti quei provvedimenti che aiutavano i più in difficoltà. Lo stato, attraverso la bolsa familia ha prima aiutato queste persone che ora si vedono levare quei pochi aiuti di cui, di diritto, beneficiavano. Potere mandare i figli a scuola, ad esempio, o avere un supporto medico ora non è più possibile.

Tutto costa sempre di più. dai trasporti al cibo. Il costo del latte è cresciuto di sei volte in tre anni. I mezzi pubblici, nonostante le tante proteste, restano un nervo scoperto perché in tantissimi sono costretti a servirsene, ma non sono alla portata di tutti. Così, soprattutto nella zona nord della città, dove vivono essenzialmente i più poveri, non è inusuale vedere coloro che poi troveremo raccogliere lattine sulle spiagge della zona sud, seguire i binari del treno per arrivare fino al centro da dove poi, sempre a piedi, raggiungeranno la loro destinazione. Un viaggio in pratica. Dei migranti in cammino dentro la propria stessa città.

Il casermone della polizia

Arrivando in metropolitana alla favela di Manguinhos è tutto un brulicare di favelas. Arrivati la prima cosa che non si può non vedere è la cosiddetta «città della polizia», una caserma di dimensioni gigantesche che costeggia proprio i binari dove tanti disperati sono in cammino.

Per entrare nella favela bisogna costeggiarla, ma non a piedi. È la zona più pericolosa, dove gli «assalti», come sono chiamati qui, sono all’ordine del giorno. Un paradosso. Percorsi in moto taxi questi settecento metri, una grossa strada, poi la favela. La polizia è all’entrata, come ci fosse una dogana. È una postazione informale, gli agenti chiacchierano, danno uno sguardo allo smartphone ma osservano tutti quelli che transitano. Dentro, tra i vicoli, grossi pezzi di cemento. Sono messi per impedire ai mezzi pesanti dell’esercito di accedervi.

È come in guerra. Perché qui, anche se non dichiarato, c’è un conflitto in corso che va avanti da molti anni e proprio con l’assegnazione dei grandi eventi sportivi ha cominciato un lavoro molto sporco, che ha visto di fatto i più poveri aggrediti con la scusa della guerra al narcotraffico e la sicurezza.

Ma proprio a Manguinhos è evidente la stretta relazione tra chi spaccia e chi dovrebbe impedire quest’attività. Perché non può essere che se c’è un certo gruppo criminale a gestire gli affari, c’è la pace, se invece è un altro si scatena l’inferno. E quando questo si verifica non viene risparmiato proprio nessuno.

Morire su un campo di calcio

Luogo simbolo che sintetizza lo stato delle cose è il campo da calcio di Manguinhos. È in mezzo alla favela, dove c’è una specie di piazza. Ai quattro angoli del campo, all’esterno, su dei tavoli gruppi di tre o quattro ragazzi che fumano maconha e osservano quello che succede. Qualcuno è armato. C’è la pace ora, è tutto tranquillo. Per fare qualche foto del campo bisogna chiedere loro il permesso. Ci arrivo con la madre di Christian, che ha perso la vita proprio mentre stava giocando a pallone.

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La madre di Christian (foto Ivan Grozny Compasso)

 

 

Questo campo detiene il triste record di caduti mentre si gioca. Quando l’esercito entra, pesantemente armato e senza accordi con chi controlla il mercato della droga, sceglie volutamente di colpire i civili anche per mettere le persone delle comunità contro i trafficanti e agevolare un passaggio che altrimenti non si sarebbe verificato.

Di storie così ce ne sono tantissime. Molte delle madri che hanno perso i loro figli lottano per avere una giustizia che in partenza sanno che non otterranno ma sono sempre di più e cominciano a farsi sentire anche da quella parte di opinione pubblica che certe cose non le vorrebbe ascoltare.

I grandi eventi sportivi non hanno portato alcun beneficio alle comunità di qui e anzi hanno reso la presenza delle forze militari ancora più pressante. E poi ci sono le grandi opere, come viadotti e le nuove linee della metropolitana. Sono le uniche opere fatte per rimanere, ma non ancora ultimate.

Marlon è figlio di Mateus e Tina. Loro sono nati nella Città di Dio, a pochi km da dove li incontro. Cresciuti poveri e in mezzo alla violenza come tutti quelli che nascono li, si innamorano e decidono di fare un solo figlio in modo da potergli dare tutto il necessario per offrirgli una vita migliore. Riescono addirittura a mandarlo all’Università. Si laurea in pochi anni come ingegnere civile e trova lavora presso un grande cantiere, proprio a Tijuca, dove si trova il villaggio olimpico. Il ritardo delle consegne e la poca sicurezza delle condizioni di lavoro fanno il resto. Marlon oggi è tetraplegico, costretto a letto per tutta la vita a causa di un volo di diversi metri.

Il suo non è un caso sfortunato, non è il fato che ha deciso ma una condizione generale, complessiva, fatta di sfruttamento e corruzione, abusi e ingiustizia. I suoi genitori stanno portando avanti una causa contro lo Stato e la società che aveva (in subappalto) i lavori.

È sempre più difficile per chi ha meno, trovare l’opportunità di migliorare la propria condizione perché anche quando si ottiene l’occasione c’è sempre qualcuno che ricorda da dove si è venuti.

Non ne rimarrà un tubo

La città, come si dice in questi casi, si sta preparando al grande evento. I Giochi a distanza di due anni dalla Coppa del Mondo. Ed è tutto un brulicare di gazebo e strutture mobili montate con tubi innocenti. Da Tijuca, dove si trova il villaggio olimpico, passando per Copacabana, il Maracanà e giungere poi fino a Deodoro, dove c’è un sito, sede dei Giochi, si vedono solo enormi capannoni, transenne e tribune prefabbricate. E soldati.

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Sorveglianza armata nei luoghi dei Giochi (foto LaPresse)

Operai senza sosta lavorano nei punti più visibili della città, che è stata come impacchettata, da teli in pvc che dall’aeroporto fino al centro delimitano le pareti delle grandi arterie autostradali. Le immagini delle grandi spiagge e i loghi dei Giochi in bella mostra impediscono di vedere cosa c’è dietro. Il Compleixo da Marè, ad esempio. O altre piccole e grandi favelas che si arrampicano sui morri della città. Un velo colorato che copre le presunte colpe di quella che resta, nonostante tutto, la cidade maravilhosa.

Ma quando i Giochi saranno finiti, tutto sarà smontato, d’innocente qui non rimarrà neppure un tubo.