Le trasformazioni politiche, economiche, sociali e soprattutto gli effetti di una crisi che sembra senza fine ha spinto le imprese a cercare di sviluppare nuovi prodotti innovativi e ecologicamente compatibili. Allo stesso tempo, sono «fiorite» moltissime piccole imprese come soluzione a una disoccupazione di massa. In un recente rapporto della UnionCamere – L’identikit dello startupper – viene quantificato il numero delle startup made in Italy: 3.850 unità operanti, con un incremento di 650 in più rispetto alla fine del 2014. La possibilità di poter inventare o reinventare la propria vita lavorativa a 30, 40, 50 o addirittura a 60 anni è visto come una chance per migliorare a competitività del «sistema Italia». Questo si augura il rapporto dell’UnionCamere. Certo, le sue sono conclusioni partigiane, che privilegiano cioè l’analisi del «fare impresa»: sono infatti omesse la difficoltà delle start up di garantire redditi dignitosi (altri analisti parlano di un vero e proprio «autosfruttamento», quando parlano di chi lavora in una start up).

In ogni caso le start up sono viste come la soluzione per attivare un circolo virtuoso tra attività imprenditoriale e attività di ricerca che eviterebbe a molti giovani di vedere riconosciuti fuori dai confini nazionali le proprie richieste di brevetto o di finanziamenti alle loro idee di prodotto. A sostegno di questa convinzione viene ricordato che il «Decreto Crescita 2.0» varato dal Ministero dello Sviluppo Economico ha permesso agli «incubatori» e «acceleratori» d’impresa di poter ricevere un supporto istituzionale e una serie di finanziamenti garantiti dalla Banca Centrale Europea. I settori che registrano un incremento sono nella produzione di software, nei servizi legati all’Ict (Information and Communication Technology) e di ingegneria informatica e dell’area scientifica rappresentano il 73% delle start up , il 4% di esse sono legate al commercio. Scarna è la loro presenza nel turismo e nell’agricoltura.

Capitalisti di ventura

In italia la distribuzione geografica delle startup è diviso in modo non omogeneo. La parte del leone la fa il Nord, con il 31% del totale – la Lombardia registra 842 start up, l’Emilia Romagna 463 -; al Centro è la Regione Lazio che raggiunge la terza posizione con 318 nuove imprese. Al Sud è la Campania che si assesta al quinto posto con 225. In generale hanno conseguito un fatturato che non supera i 50mila euro. A questa fragilità va associata Inoltre l’elevata propensione al reclutamento di investimenti diventa un processo fondamentale per chi è impegnato in queste nuove idee di business nella fase iniziale, di progettazione fino ad arrivare alla realizzazione effettiva: gli incubatori d’impresa.

In Italia i casi di successo sono rappresentati da esempi come Digital Magics, leader indiscusso del settore; nasce nel 2004 a Milano; è un venture incubator che finanzia investimenti con un capitale di 10 milioni di euro nel settore digitale, della financial tech, dell’advertising delle tecnologie e per i brand sul turismo. Ha dato vita a quasi 50 startup e più di 300 posti di lavoro. Un’altro acceleratore d’impresa molto importante in Italia si chiama H-Farm con sede a Treviso. Dal 2005 si è occupata di nuove startup nei settori web, digital e new media, ha investito più di 18 milioni di euro per lanciare quasi 70 nuove imprese fino ad oggi.
I punti di forza di realtà come queste sono date dalla collaborazione tra centri di ricerca e il mondo imprenditoriale capace di mettere in relazione diverse realtà per esigenze diversificate. Ad esempio H-Farm fa parte della «Alliance Startup» una collaborazione tra tre principali «acceleratori» italiani, Nanabianca e Boox che si uniscono per condividere la conoscenza e gli strumenti utili allo sviluppo di imprese di successo. Al pari di quanto avviene fuori l’Italia, l’accento è posto sulla «risorsa umana» come fonte primaria del processo d’innovazione. In questa cornice, anche le università hanno provato a caratterizzarsi come «attrattori» di nuove idee e di ingenti investimenti. In Italia esistono Poli altamente scientifici in grado di rafforzare l’idea dalla culla alla tomba: nel caso delle start up significa superare la soglia simbolica dei 36 mesi di incubazione. Uno di questi è il Polo tecnologico di Navacchio a Pisa, uno degli esempi di maggior successo per le partnership nell’ambito dell’Ict dell’elettronica, della robotica e dell’informatica. Rappresenta l’anello della catena produttiva che mette in relazione le soluzioni proposte da studenti e ricercatori e i bisogni delle cosiddetta «economia della conoscenza».

Secondo una retorica diffusa, il web 3.0 consente alle imprese di poter destrutturare il vecchio concetto fordista, per cui non si passa più dalla produzione al consumatore, ma stabilisce una interattività in tempo reale tra produzione e consumo. Sempre secondo questa retorica, grazie alle trasformazioni tecnologiche, è possibile definire un nuovo modello di sviluppo sostenibile, che pone la conoscenza al centro di questo rapporto.

Questo è d’altronde l’obiettivo di spin off universitari di successo come il Politecnico di Torino e il suo I3P specializzata per la produzione e la progettazione di strumenti diagnostici e per la somministrazioni di farmaci. Insieme a ItaliaCamp e TechGarage bandiscono la «Startup Revolution Road» una competizione di strategia integrata creata per incentivare nuove idee di carattere scientifico, dell’ICT, della cleantech, del medtech e della «social innovation», soprattutto basate su progetti digitali sempre più richiesti dalle aziende e idonee per un perfetto dialogo tra consumatore e produttore.

Nell’Emilia Romagna un contributo molto importante per la realizzazione di spinoff universitari è rivestito da AlmaCube, un’incubatore di startup promosso dall’Università di Bologna e l’Associazione degli industriali di Bologna, focalizzatosi nel settore biomediaco-odontoiatrico.

A Pordenone il Polo Tecnologico Andrea Galvani è un simbolo di integrazione con la Regione Friuli Venezia Giulia grazie a finanziamenti di 6,5 milioni di euro si pone l’obiettivo di realizzare i progetti in diversi settori, biotecnologico, agroalimentare, domotica e per l’ambiente.

Nel Lazio invece la partnership tra l’Università Luiss Guido Carli e l’incubatore L-Venture Group ha dato vita a EnLabs Venture, una venture capital che dal 2013 mira a rilanciare startup digitali attraverso un programma di supporto di circa 5 mesi, velocizzando così i tempi di produzione, fornisce ai nuovi imprenditori una serie di servizi correlati al piano aziendale e di marketing.

Le scommesse europee

È noto che la strategia «Europa 2020» promossa dall’Unione europea mira all’incremento del tasso di occupazione in Europa, attraverso facilitazioni finanziarie e legislative, in cinque grandi aree: occupazione, istruzione, ricerca-sviluppo e ambiente e energia. Diverse misure sono state introdotte all’interno degli Stati membri – all’Italia viene chiesto di intervenire individuando gli assi e i programmi di sviluppo al fine di ottimizzare l’efficienza del paese e soprattutto quello delle sue risorse. Nelle discussioni comunitarie, le principali cause che hanno portato a vero e proprio collasso dell’Italia sono dovute a bolle immobiliari, squilibri finanziari, scarsa fiducia nelle istituzioni da parte di tutta la filiera imprenditoriale, altissimo tasso di corruzione, abuso indiscusso e sfrenato delle risorse ambientali. Elementi, tuttavia, che non sono alieni in altri paesi europei.

La risposta a questa tendenza spinge gli Stati membri dell’Unione Europea a incominciare a cambiare la linea di pensiero, al fine di comprendere che alcune soluzioni possono essere supportate dal basso e che le trasformazioni tecnologiche e scientifiche stanno portando a uno stravolgimento del concetto stesso di lavoro. Da qui l’invito a una cooperazione tra pubblico e privato per finanziare l’innovazione tecnologica. Le forme delineate sono quelle dell’«equity» e del capitale di rischio. Quest’ultima è una delle soluzioni più adottate nel mondo perché in questo modo a beneficiarne sono le imprese; lo Stato e il settore pubblico gradualmente escono dal processo decisionale, mentre il privato accompagna l’impresa nel suo corso di vita, fino anche a fusioni, vendite o quotazioni in mercati più grandi.