Al presidente del consiglio piace provocare. E i sindacati sono tra i suoi obiettivi preferiti. Forte del «40 per cento e 80 euro», come satireggia Crozza nel «Paese delle meraviglie», il capo del governo crede di poter dire e fare tutto quello che gli passa per la testa. Ma Renzi usa i toni arroganti, irridenti, a volte sprezzanti (e rubati ai luoghi comuni del più becero qualunquismo), perché sa che il carro del vincitore ha ormai solo posti in piedi e non trova ostacoli nella corsa verso il partito unico del centro-sinistra-destra.

Affermare che «i sindacati cercano scuse per scioperare» è una provocazione voluta, però è anche musica per le orecchie di chi osserva dall’alto con sguardo commiserevole tutti quelli che la crisi colpisce più duramente, quelli che vivono e sopravvivono di stipendio, di pensione, di precarietà.

Dire che lui i posti di lavoro «li crea», che in fondo «Camusso e Salvini sono due facce della stessa medaglia» rivela un forcing che dalla rottamazione della «vecchia politica» (che in realtà era soprattutto emarginazione del gruppo dirigente del Pd), ora procede spedito per impaurire e convincere i perdenti che se non stanno con lui avranno da perdere assai di più, in un gioco al rimbalzo del più precario, del più povero. Così si permette, sulla scia del lepenismo in salsa leghista, di sfottere i lavoratori che lo sciopero lo pagano direttamente sul magro salario.

Chi dimentica questo aspetto è un reazionario.

Ma il presidente del consiglio, che intende il governo come esercizio di un potere senza opposizione, perché chi osa criticare è solo un gufo, è anche il segretario del Pd, cioè di una forza che in teoria dovrebbe considerare il mondo del lavoro come casa sua. Abbiamo capito, invece, che Renzi si sente a casa quando incontra la Confindustria di Squinzi.

Non risulta che di fronte a questo attacco sistematico verso il mondo del lavoro si sia alzata una voce di risposta. O che un Bersani, massimo rappresentante fino a ieri del Pd, si sia sentito in dovere di replicare altrettanto duramente. Questo imbarazzante silenzio non deve stupire più di tanto, segna una linea di continuità con l’acquiescenza con cui il Pd ha accolto e sottoscritto, da Monti in poi, tutte le politiche di smantellamento dello stato sociale. Come del tutto congruente è la parte in commedia recitata da alcuni parlamentari della minoranza interna, protagonisti di una simil-trattativa sul Jobs Act il cui esito era già scritto nel testo votato dalla stragrande maggioranza della direzione.

L’unica concreta protesta contro le politiche di smantellamento delle tutele e dei diritti residui del lavoro viene oggi dal sindacato di Susanna Camusso e dalla Fiom. Con la manifestazione del 25 ottobre e ora con lo sciopero generale, la Cgil ha messo in campo la possibilità di un’opposizione sociale nel paese. E la scelta della Uil di unirsi al 12 dicembre, è un altro passo importante.

Anziché sfottere, il segretario-presidente farebbe bene ad ascoltare le campane di una protesta che suonano soprattutto per lui.