Ci vuole uno sguardo libero da diaframmi classicisti (e leggermente snob) per evidenziare, parlando di Roma antica, quanto grave sia la perdita delle Memorie di Lucio Silla: molto si poteva imparare dal racconto di un uomo assai deciso, che inaugurò due pratiche destinate a ricorrenti imitazioni, la marcia su Roma e la proscrizione degli avversari politici. Ripensare la storia antica implica un complicato confronto con fonti che ci sono (e vanno interpretate), e altre che non ci sono più (ma il cui peso va pure valutato). Soprattutto per la storia delle origini, è inevitabile dipendere da quanto gli antichi credevano di sapere di sé, più che da una documentazione più o meno oggettiva: e l’approccio più sensato è allora un moderato buon senso, diffidente dell’ipercritica come delle ricostruzioni ipotetiche. SPQR Storia dell’antica Roma, l’ultimo libro di Mary Beard, professore a Cambridge, ora tradotto in italiano (Mondadori «Le Scie», pp. 554, euro 25,00), è un buon esempio dei risultati cui si perviene dopo lunga consuetudine con il soggetto e con saggio equilibrio dell’indagine. Il titolo non rinvia ad Asterix e nemmeno a Giuseppe Gioachino Belli («Solo Preti Qui Regneno»), ma allo Stato romano, narrato con piacevolezza e rigore lungo i mille anni che portano dalle origini al terzo secolo dopo Cristo. L’obiettivo è di comprendere, oltre al racconto degli eventi, che cosa significò essere e anche diventare romano, e di convincere a non interrompere «il lungo dialogo» che l’Europa ha avuto con i Romani antichi.
Come i tempi odierni richiedono, il passo è leggero e le esigenze del lettore sempre rispettate: niente note quindi, o pedanti citazioni di fonti, tutte relegate in una bibliografia finale. Informato e aggiornato, il libro va talora oltre la storia degli avvenimenti: senza ideologismi, discute di donne, di diritto, di religione, ma riflette anche sugli esclusi dalla grande storia, sulla cultura della plebe, sull’origine dell’enorme ricchezza dei privilegiati. Meritorio l’impegno a combattere gli stereotipi. Uno fra tutti: l’imperialismo romano. Consapevole del ricco dibattito storiografico moderno (quali le motivazioni delle conquiste, quali gli attori, etc.), Beard respinge il preconcetto che vede una Roma bramosa di conquista del mondo schiacciare con indifferenza i popoli nativi, in Italia, in Grecia, in Gallia, in Britannia: se i legionari non erano una organizzazione umanitaria, i loro avversari non erano certo «innocenti pacifisti». La guerra antica, da Canne ad Alesia, da Teutoburgo al monte Graupio, fu sempre violenta e cruenta, e non ha senso analizzarla (e peggio, giudicarla) con i criteri dell’oggi.
Le questioni cruciali della storia romana sono affrontate con una cautela rilassante e inquietante. Certo, la risposta a molte questioni (chi era davvero Augusto?) è molto complessa, e utile quindi la prudenza. Però talora ci si limita a constatare che tali domande «attendono una risposta»: verrebbe da obiettare che il compito dei libri di storia è di contribuire a quelle risposte. Si trovano nel libro pagine acute, fluide, ironiche o scettiche su questo o quel dettaglio; meno in vista le idee, o i giudizi. Le buone analisi non mancano: così, raccontando del greco Polibio alle prese con la «costituzione mista» di Roma, si discute l’assenza di una vera democrazia romana, ma anche l’influsso delle assemblee popolari sulla lotta politica. Fin quando almeno la repubblica non sprofondò nella contesa armata tra i capi: e qui spicca l’idea che il primo degli imperatori sia stato non Cesare, ma Pompeo. Grazie anche alla (relativa) ricchezza di documentazione, è la parte sull’impero quella più suggestiva: e il racconto della lunghissima carriera politica di Ottaviano, poi Augusto, è un banco di prova significativo per le attitudini dell’autrice. Evitata è la serie dei medaglioni imperiali: con buona pace dei biografi pettegoli, il funzionamento della macchina contava più delle bizzarrie degli autocrati. L’impero resse benissimo anche sotto il regime dei «cattivi principi», fossero Nerone o Domiziano. E così, per esempio, il tirannicidio che eliminò l’imperatore Gaio (Caligola) nel 41 d.C., non fu una svolta nella storia, tanto meno nel senso di una restaurazione della repubblica (un mito a cui anche i moderni continuano a troppo concedere). Il vero problema del sistema imperiale, l’ambigua monarchia senza re, era quello della successione, che insieme alla gestione dei rapporti con il Senato e allo status («divino o non divino») del Cesare è una delle chiavi per comprendere la complessa vicenda di Roma.
Un’autrice che proviene da una terra di recente e tormentata conquista (non manca la foto della statua londinese di Boudicca, regina ribelle contro Roma) offre un adeguato sguardo sulle provincie. Ecco allora le osservazioni sulla romanizzazione, che «normalmente, non era un processo imposto dall’alto. Era semmai la conseguenza di una scelta delle élite provinciali»; ecco ancora il pragmatico giudizio sulle rivolte antiromane, che «non hanno mai avuto il medesimo significato dei movimenti di indipendenza dell’epoca moderna. E i ribelli non erano animati da fanatismo religioso o da un risentimento di sottoclasse esclusa». L’impero ne risulta non come una gabbia repressiva, ma come un campo di vivace mobilità sociale e spaziale, nel quale le identità potevano essere multiple: come nel caso di Saulo (Paolo), ebreo, grecofono, cittadino romano. Può essere che l’interesse moderno per il multiculturalismo renda rasserenato e ottimistico un quadro che fu probabilmente più inquieto e complesso: ma resta il senso di una esperienza che riguardò milioni di uomini e donne, si sentissero essi oppressi o invece protetti dall’impero di Roma.
Il lettore che cerchi la bibliografia la troverà sotto l’inusitato titolo Ulteriori letture, che goffamente rende il Further reading dell’originale. Vi scoprirà centinaia di testi in inglese che trattano la storia di Roma antica: giacché, in libri come questo, le letture sono pensate solo in funzione del lettore anglofono. Per la traduzione, certo, qualche titolo in italiano è stato integrato, ma in modo non sistematico: sarebbe stato più utile ripensare totalmente la bibliografia. Altrimenti il lettore italiano, a ragione, potrebbe dedurre che alle pagine 513-538 (non esattamente una sintesi) vi è poco o nulla destinato a lui.
Beard chiude il libro con Caracalla, che nel 212 d.C. concesse la cittadinanza romana a (quasi) tutti gli abitanti dell’impero. La sua scelta ha fatto e farà discutere: ogni storico si misura con il problema della periodizzazione, e anche su questo va giudicato. Quel provvedimento segnò il culmine di un processo di integrazione entro l’orbe romano, iniziato forse dall’accogliente asylum voluto da Romolo alle origini della città: una scelta che nei secoli aveva contribuito alla resilienza e alla tenuta dell’imperium. Ma dopo Caracalla quel processo non fu adeguato di fronte all’urgenza delle migrazioni germaniche: e si andò verso un futuro incerto, qui non trattato, che corrisponde a quanto oggi si chiama Tarda antichità. Che un libro attento ai temi dell’integrazione esca in Italia mentre la patria dell’autrice ha scelto di lasciare l’Europa unita, è un paradosso. Esso invita però a ripensare la storia di Roma, magari per trovare, tra gli oppositori dei Gracchi, la retorica xenofoba di sempre: «Una volta che avrete concesso la cittadinanza ai Latini, credete che rimarrà qualche spazio per voi, come adesso, nelle assemblee, nei giochi o nelle feste? Non vi rendete conto che si prenderanno tutto?». Per fortuna non furono simili argomenti, un tempo, a guidare la politica di Roma.