Come nel pazzo movimento di un flipper dotato di una molla infinita, il disegno di legge sulle unioni civili, rimbalza sui passaggi e sulle curve dell’attività parlamentare, senza trovare l’occasione e il tempo per tradursi in normativa. Così, oscilla tra uno scambio indicibile con riottosi alleati della maggioranza, e le affermazioni perentorie e le promesse immarcescibili già rivelatesi più volte vane. Il solo fatto certo è che quella legge ancora non è entrata a far parte del nostro ordinamento.

Eppure, ben quattordici paesi europei hanno esteso il matrimonio alle coppie dello stesso sesso; e altrettanto hanno fatto tutti gli stati degli Usa dopo la sentenza della Corte Suprema del giugno scorso. Dunque, dal Canada al Sudafrica alla Nuova Zelanda, sempre più Paesi aprono i propri ordinamenti alle nozze egualitarie. Tra questi, la gran parte delle nazioni di prevalente cultura cattolica (dalla Spagna all’Argentina, dal Brasile al Portogallo, dall’Irlanda al Messico, al Belgio all’Uruguay).

L’Italia ha scelto una strada differente: quella di un istituto giuridico distinto dal matrimonio riservato alle sole coppie gay e lesbiche, già percorsa da diversi paesi europei negli anni scorsi e progressivamente abbandonata, tranne che dalla Germania e da pochi altri.

A più riprese la Corte Costituzionale italiana ha invitato il Parlamento a riconoscere giuridicamente le coppie dello stesso sesso, collegando il paradigma eterosessuale del matrimonio all’assenza di una specifica legge ordinaria, capace di superare quanto, al tempo della Costituente, era contenuto nel codice civile del 1942. Come a dire che quando il legislatore vorrà decidere per l’abolizione del divieto di accesso al matrimonio per le coppie omosessuali, non troverà un impedimento nell’art.29 della Costituzione, la cui interpretazione è destinata a evolvere. Tuttavia è un dato di fatto che fin ora il Parlamento non abbia fatto questa scelta e si sia incamminato sulla strada dell’istituto distinto, fondato sull’art.2 della Costituzione e non sull’art.29.

Questo solleva una questione importante: la separatezza davanti alla legge del nuovo istituto rispetto ai precedenti è una discriminazione che, come quella che vietava i matrimoni interraziali negli Stati uniti, sembra destinata a cadere col tempo. Ma quella separatezza, nell’immediato evidenzia un’altra contraddizione: il rischio, cioè, che la differente qualità del nuovo istituto, possa comportare una disparità tra i diritti sociali rispettivamente riconosciuti. Cosa che introdurrebbe inaccettabili elementi di diseguaglianza.

Il testo unico in discussione al Senato prevede oggi una sola differenza sostanziale fra le coppie omosessuali e quelle eterosessuali: ed è la disciplina relativa ai figli. Ai soggetti delle unioni civili non sarà consentito l’accesso alle adozioni: sarà possibile, tuttavia, all’interno di una famiglia omogenitoriale, l’adozione dei figli del/la partner.

Certo, avremmo preferito riconoscere a questi bambini il legame giuridico con entrambi i genitori, quello legale e quello «sociale», senza passare dalla procedura impropria dell’adozione. E avevamo depositato due disegni di legge in tal senso, ma la cosiddetta «step-child adoption», già anticipata dalla giurisprudenza italiana, può rappresentare una prima e limitata risposta – probabilmente l’unica ottenibile oggi, considerati gli attuali rapporti di forza – a diritti fondamentali di bambini che la legge italiana rende «orfani» di un genitore.

Ciò che, certamente, non sarebbe tollerabile è che si rimarcasse ulteriormente la differenza fra matrimonio e unione civile, a tutto svantaggio di quest’ultima, riproducendo profonde fratture di diseguaglianza, destinate poi ad essere sanzionate dalle corti europee e nazionali in quanto discriminatorie. La dottrina statunitense del «separate but equal» con la quale si riconoscevano agli afroamericani gli stessi diritti dei bianchi ma in un contesto di segregazione razziale, ha rappresentato, fino alla sua dichiarazione di incostituzionalità (1954), una pagina buia nella storia dei diritti civili, ma si fondava comunque sul presupposto (spesso solo formale) che le condizioni garantite a bianchi e neri, pur nella separazione, fossero uguali. Ecco il punto: il nuovo istituto giuridico delle unioni civili fra persone dello stesso sesso nasce con l’anomalia di essere un dispositivo di separazione. Non sarebbe degno di un paese civile, e sarebbe certamente riscritto dalle corti, se in più negasse alle coppie dello stesso sesso unite civilmente un’uguale condizione di accesso ai diritti delle coppie sposate (dalla pensione di reversibilità alle graduatorie comunali di accesso ai servizi). Nonostante l’Italia sia in ritardo sul resto d’Europa – dove lo status di famiglia delle coppie omosessuali è stato sancito oltre che dai diritti interni anche dal diritto comunitario – il nostro paese sta decidendo di fare solo un primo passo. Che almeno non sia sghembo e sbilenco. Oltre l’intollerabilità di un rinvio che si rinnova di stagione in stagione, facendo sospettare chissà quali trame e quali retroscena , va chiarito un punto fermo: senza quella prospettiva di eguaglianza, indicata qualche riga più sopra, e senza l’accoglimento di quella «step-child adoption» (adozione del figlio del partner), saremmo in presenza di una legge tanto mediocre da far dubitare di una sua pur minima utilità.