Un gusto non troppo soffuso di melanconia postcoloniale pervade gli strascichi lasciati dalle celebrazioni dei 150 anni dell’unità nazionale: l’idea secondo cui la «nostra» cultura nazionale, a differenza di altri paesi, sarebbe stata «fino al recente arrivo di immigrati» straordinariamente omogenea per quanto riguarda il colore della pelle, la religione e pure la lingua. Un paradigma identitario che mostra come, nonostante la specifica ossessione del dibattito italiano per l’identità nazionale, restino radicate e persistenti le resistenze a considerarne le relazioni con il razzismo.
Appare quindi una sfida e una scommessa, fin dal titolo, il volume di Gaia Giuliani e Cristina Lombardi-Diop Bianco e Nero. Storia dell’identità razziale degli italiani (Le Monnier, pp.214, euro 18). L’obiettivo esplicito è quello di rilanciare gli esiti più interessanti degli studi che hanno esplorato il nesso costitutivo tra appartenenza nazionale e immagini dell’alterità, per mettere a fuoco le forme di «autorazializzazione» che hanno modellato tanto la dimensione statuale dell’identità nazionale quanto le rappresentazioni diffuse di quella italiana, dal periodo unitario fino ai primi decenni repubblicani.
In particolare, il volume individua continuità e rotture dello specifico caso italiano nelle fluttuazioni che si sono materializzate attorno alla linea del colore. Con gli occhi ben puntati sull’eclatante visibilità di cui sono investiti i corpi non-bianchi nei conflitti del presente, le due studiose si chiedono quali siano le genealogie storiche e politiche della norma, invisibile perché naturalizzata, che fa coincidere bianchezza e italianità e dei vocabolari attraverso cui si è articolata e continua ad articolarsi.
Nel corposo saggio che apre il volume, Gaia Giuliani individua nel periodo che va dalla nascita dello stato liberale al 1936-37 un passaggio cruciale per comprendere come i confini della cittadinanza emergano da una definizione dell’appartenenza alla nazione per contrasto con spazi non-bianchi, identificati prima con il Sud interno e poi con le colonie. Le tensioni proprie dello stato liberale tra rigenerazione nazionale e questione meridionale, da una parte, e tra migrazioni e colonialismo dall’altra, diventano gli ingredienti di un processo di «sbiancamento» che culmina nell’idea fascista di una mediterraneità bianca.
Giuliani insiste qui, in particolare, sul ruolo giocato dalla riformulazione delle teorie mediterraniste di fine ottocento, nel fornire un fondamento «scientifico» all’idea totalitaria della nazione propugnata dal fascismo. Nell’immediato dopoguerra è proprio la centralità di questa matrice a veicolare contemporaneamente la veloce liquidazione della svolta arianista successiva al 1937 e l’invisibilizzazione del razzismo, secondo la ferrea logica per cui l’italiano mediterraneo «non può per sua natura essere razzista: partecipa della mediterraneità di molti altri popoli e territori, e allo stesso tempo definisce gli italiani, a prescindere dalla pigmentazione della loro pelle, come più bianchi di tutti gli altri paesi al limite dell’Europa o non europei».
Nella seconda parte del volume Cristina Lombardi-Diop, sposta l’attenzione sul passaggio tra fascismo e primi decenni dell’Italia repubblicana, individuando nei saperi e nelle pratiche legate all’igiene e alla cura del corpo, un terreno di convergenza tra rappresentazioni delle bianchezza e processi di modernizzazione. L’accesso ai consumi e il diffondersi dell’industria culturale declina sul terreno depoliticizzato della sfera domestica, del corpo, delle pratiche quotidiane quel processo di sbiancamento degli italiani che aveva ispirato le campagne fasciste di bonifica della razza sul territorio nazionale e nelle colonie.
In questo senso particolarmente significativa è l’analisi dei codici simbolici delle pubblicità dei prodotti di bellezza e per la casa, dai Manifesti di Gino Boccassile degli anni ’50 al Carosello degli anni sessanta e settanta. Calimero, il pulcino nero icona della pubblicità del detersivo Ava, è forse l’esempio più eclatante della combinazione tra la stigmatizzazione della nerezza associata a impurità, sporcizia e contagio con i motivi anticontadini, antimeridionali e paternalistici che dominavano la cultura diffusa dell’Italia industriale negli anni del boom economico e delle migrazioni interne.
Attraverso l’interiorizzazione di modelli di comfort personale e domestico, la linea del colore contribuisce a modellare i processi di mobilità territoriale e quelli della mobilità sociale segnalando «uno spostamento nella rappresentazioni razziali che si allontanano dalle categorie biologiche e si avvicinano a una comprensione più intima e privata della posizione di ciascuno nel progetto morale e nazionale della modernizzazione».
Nel mettere in tensione corpo della nazione e disciplinamento biopolitico dei corpi individuali, il volume evidenzia come la linea del colore si materializzi all’intersezione di paradigmi diversi di naturalizzazione delle differenze legate al corpo. Il genere diventa qui un terreno cruciale per individuare le linee mobili attraverso cui l’identità razziale degli italiani è prodotta e contemporaneamente resa invisibile da altre forme di categorizzazione sociale. I riferimenti ai modelli visivi ed estetici che definiscono gli stereotipi di femminilità e mascolinità bianca e mediterranea, così come la trama razzializzata dei meccanismi di controllo e nazionalizzazione del corpo delle donne, individuano nella differenza sessuale il principale terreno attraverso cui la razza e il razzismo si manifestano nel contesto italiano.
Uno dei principali meriti del volume, e uno dei suoi punti di forza, è di offrire una chiave interpretativa di lungo periodo che riesce a far dialogare efficacemente due ambiti di indagine finora largamente separati. Il primo è rappresentato da quel patrimonio di ricerche che negli ultimi anni ha riscattato la storia delle migrazioni e del colonialismo italiano da una posizione marginale per collocarle al centro delle dinamiche del nation building italiano. Il secondo è riconducibile a quell’insieme di approcci e griglie interpretative che in ambito anglosassone ha caratterizzato l’emersione dei whiteness studies, un’area trasversale di ricerca – conosciuta in Italia principalmente grazie al lavoro di traduzione di Giuliani – che ha riformulato le teorie critiche della razza assumendo come oggetto privilegiato l’analisi della costruzione storica, culturale e politica del «privilegio» bianco.
A muovere questo dialogo è l’urgenza di identificare strumenti analitici adeguati a leggere nei conflitti del presente un problema contemporaneamente storico e politico in grado di sollecitare nuove mappe dell’archivio delle nostre identità. Proprio su questo terreno la scommessa formulata dalle autrici del volume è stata rilanciata in questi mesi dalla nascita di InteRGRace (Gruppo interdisciplinare e intersezionale su razza e e razzismi/Interdisciplinary Research Group on Race and Racism), di cui Giuliani è una delle fondatrici.
InteRGRace è una rete di produzione, diffusione e scambio a livello nazionale e internazionale che, articolandosi nella duplice veste di gruppo di ricerca accademica e di associazione rivolta ad un pubblico non specialista, si propone come laboratorio di traduzione e contaminazione tra domande politiche e sfide teoriche.