In un film di qualche anno fa, il regista algerino Tariq Teguia raccontava la storia di Malek, un topografo a cui viene assegnata una missione nell’ovest dell’Algeria, in una regione che qualche anno prima era stata teatro di violenti attentati. Inland/Gabbla (2008) è un road-movie in cui il protagonista percorre a ritroso le rotte migratorie che dall’Africa sub-sahariana portano alle coste del Mediterraneo, seguendo i vecchi tracciati coloniali che attraversano il territorio algerino fino alla frontiera con il Mali, in pieno deserto. Il paesaggio è quello in cui sono ancora presenti le tracce della colonizzazione francese che ha definito un territorio al fine di conoscerlo e di governarlo. Il protagonista di Inland è un uomo che si occupa proprio di mappare un’area geografica, ma alla dimensione bidimensionale e tassonomica della carta preferisce l’attraversamento soggettivo di una geografia sociale e umana. La cartografia cinematografica proposta dal film fa da contrappunto all’oggettività della carta, la cui radice va collocata nel quadro della modernità coloniale.

18. Katia_Kameli, L'oeil se noie _photographie tiree du film Le roman algerien, 2015 © Katia_Kameli
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La cartografia moderna rappresenta lo spazio attraverso un linguaggio capace di tradurre una complessità multidimensionale in un insieme di segni e di linee. Ogni mappa è il risultato di un processo di astrazione che maschera le differenze al fine di produrre un’immagine-testo omogenea. Non è un caso se la moderna cartografia si è sviluppata in concomitanza con l’espansione coloniale: le scienze moderne dovevano rispondere alla necessità di osservare, conoscere e dominare territori sempre più estesi. L’esposizione Made in Algeria. Généalogie d’un territoire (al Mucem di Marsiglia, fino al 9 maggio) curata da Zahia Rahmani e Jean-Yves Sarrazin si concentra proprio sull’immaginario cartografico nei suoi nessi con il colonialismo francese, attraverso un’indagine del modo in cui l’invenzione cartografica ha accompagnato la conquista dell’Algeria e la sua descrizione.

La mostra scansiona lo sguardo cartografico sin dai primi avvistamenti al largo delle coste algerine, tra XVII° e XVIII° secolo, passando per lo sbarco dell’esercito francese sulle spiagge di Sidi-Feruch nel 1830, la conquista di Algeri e poi di un territorio sempre più esteso a cavallo tra ottocento e novecento, fino alla guerra di liberazione e l’abbandono dell’Algeria nel 1962. Nata da un’inedita collaborazione tra il primo grande museo europeo dedicato alle culture del Mediterraneo, la Biblioteca nazionale di Francia e l’Istituto nazionale di Storia dell’arte, la rassegna riunisce un insieme impressionante di carte, disegni, pitture, fotografie e documenti storici cui sono associate una serie di opere realizzate appositamente da più artisti.
In una Francia traumatizzata dai recenti attentati e sempre più ossessionata dal tema dell’identità nazionale, questa mostra permette di porre alcune domande cruciali sul nesso che tiene insieme l’immagine e l’immaginario nazionale con l’eredità (rimossa) del colonialismo. Nelle pagine introduttive del catalogo, i due curatori spiegano infatti come l’Algeria abbia funzionato come un vero e proprio laboratorio per la modernità francese e che ripercorrere la storia della conquista e del governo di questa regione sia fondamentale per capire la Francia di oggi.
Made in Algeria rimanda all’idea del marchio, al paese d’origine che evoca l’epoca in cui l’Europa era inondata da prodotti (soprattutto alimentari) provenienti da questa fabbrica a cielo aperto le cui le popolazioni indigene erano per lo più ridotte al ruolo di operai agricoli.

La mostra mette al centro il punto di vista dei dominanti, ma lo fa attraverso una prospettiva «situata» che permette di rendere visibili i procedimenti che stanno alla base dell’impresa coloniale. I due curatori tentano, infatti, una rilettura politica degli archivi della colonizzazione, a partire dal presupposto che i documenti disponibili sono quasi tutti francesi, prodotti in grandissima parte dall’esercito e dall’amministrazione coloniale.

In questo modo è però possibile dimostrare come ogni mappa sia in primo luogo una proiezione, in questo caso di uno sguardo occidentale, all’interno di un territorio attraverso il quale specchiarsi. La cartografia è così presa in esame a partire dalla sua soggettività, che restituisce un regime della visione moderno e occidentale. Insieme alle mappe sono esposti anche alcuni dipinti, realizzati per lo più da pittori embedded che seguivano le spedizioni militari, in particolare nella fase più intensa della conquista, verso il 1830-1840, e che erano incaricati di tradurre in un linguaggio pittorico la mappatura del territorio indispensabile all’occupazione: i paesaggi semi-deserti costruiscono la scenografia ideale per la penetrazione dell’esercito francese in una regione presentata come disabitata e pronta ad accogliere gli invasori.
La parte più consistente dei documenti in mostra è costituita da una serie di carte che permettono di ripercorrere le varie tappe della colonizzazione, mettendo in evidenza le connessioni esistenti tra la visione cartografica e la violenza dell’occupazione e dell’appropriazione della terra. È nel contesto dell’espansione coloniale infatti che il mondo ha cominciato ad essere definito secondo i parametri europei della cartografia.

3. Argel, XVIIe siecle, carte manuscrite © BnF
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Mappare il mondo significava tracciare delle frontiere e compartimentare un territorio in un modo che rinvia alla violenza contro le popolazioni indigene, all’appropriazione della terra e all’atto di erigere delle bandiere. Le carte esposte nella mostra permettono anche di prendere in esame l’evolversi delle tecniche di osservazione e di cattura dei territori stranieri. Le mappe settecentesce, per lo più focalizzate su una visione dal largo della costa o della baia di Algeri, cedono rapidamente il passo ad altre che descrivono i tracciati delle prime esplorazioni dell’interno, in cui intere porzioni di territorio sono lasciate in bianco, spazi vuoti e sconosciuti che suggeriscono anche un «fuori» che rimanda ai limiti dell’immaginazione cartografica.
La cartografia è un’attività culturale, politica ed epistemologica, e in quanto tale è strettamente correlata con la formazione delle narrazioni e delle identità nazionali, in particolare quando l’estensione del territorio nazionale si trova in un altro continente. In questo senso il caso dell’Algeria è paradigmatico vista la sua annessione alla Francia in seguito alle rivolte operaie del 1848, quando, con l’avvento della Seconda Repubblica, viene promossa una deportazione di massa di mano d’opera francese. L’annessione dell’Algeria era insomma destinata a ridefinire i confini e l’immagine della Francia, la cui importanza va ben oltre la dimensione strettamente geografica della questione.

8. Adrien Dauzats, Le passage des Portes de fer, 1841 © RMN-Grand Palais-Chateau de Versailles_Gerard Blot
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A partire dalla Seconda Repubblica, il controllo e il governo dell’Algeria hanno avuto un ruolo fondativo nell’autorappresentazione nazionale, le cui tracce sono visibili ancora oggi. L’esposizione documenta come la colonizzazione avesse bisogno di un controllo del territorio il cui corollario era l’annientamento delle strutture sociali esistenti. La distruzione e successiva ridefinzione della topografia della città di Algeri ne è l’esempio più eclatante, come indicano diversi documenti esposti in mostra: una serie di carte, dipinti, plastici e fotografie permettono di cogliere i mutamenti occorsi nel tessuto urbano della capitale e la sua trasformazione in una città europea.
La rassegna del Mucem non affronta direttamente la guerra d’Algeria e si arresta sulla soglia dei movimenti di liberazione che hanno ridefinito i rapporti tra centro e periferia negli anni della decolonizzazione. È una scelta precisa questa, che rimanda alla volontà dei curatori di decostruire la soggettività coloniale dello sguardo cartografico. La guerra di liberazione si insinua però in diversi momenti, a cominciare dal fatto che, nel rendere conto del processo della colonizzazione, l’esposizione dimostra anche come la resistenza da parte delle popolazioni autoctone fosse un fatto ricorrente e mai del tutto sopito. Ai documenti prodotti dall’amministrazione coloniale, sono associate una serie di opere e documenti che fanno da contrappunto a una narrazione unilaterale, introducendo una serie di punti di vista dissonanti, che permettono di restituire la contro-cartografia di un territorio profondamente stravolto dalla violenza coloniale.

Dalle fotografie di Mohamed Kouaci, fotografo dell’internazionale terzomondista e autore di una serie di ritratti di personaggi come Frantz Fanon o Patrice Lumumba, alle opere di artisti contemporanei, questi lavori interrompono la sequenza storica che associa l’osservazione, la cattura e la dominazione del territorio. Tra le opere in mostra And the Road goes on… (2005) di Zineb Sedira, un video che ripercorre in senso inverso il cammino intrapreso dall’esercito francese nel 1830 in direzione di Algeri, che capitolerà di lì a poco. Il travelling della strada costiera mette a fuoco proprio ciò che sfugge ai procedimenti della cartografia, arrestandosi ogni qualvolta lo sguardo si imbatte in una presenza umana.

Il viaggio a ritroso della telecamera suggerisce anche la possibilità di percorrere la mostra a partire da uno sguardo capace di cogliere le tracce di una produzione del territorio che continua a caratterizzare il nostro presente, in Francia come in Algeria.