Molti miti, si sa, sono duri a morire, specialmente in politica dove il mito spesso supera la realtà e si impone come visione delle cose. Uno dei miti prevalenti, che si è affermato negli ultimi tempi, specialmente nel nostro Paese, è quello che attribuisce al leader politico un ruolo essenziale per vincere le elezioni. Un vero leader, però, non è tale solo per la capacità di raccolta del consenso. Il suo valore si misura soprattutto nell’incontro con il potere e nelle modalità con le quali lo gestisce. E’ qui che si può tracciare una linea tra i vari leader e vedere quanti siano riusciti a imprimere una traccia importante nel loro ruolo e quanti no. Per compiere questa operazione, occorre però porsi alcune domande: coloro che sono passati alla storia come leader forti, sono stati davvero tali? Hanno interpretato sempre in maniera personale il proprio ruolo, o devono in realtà gran parte del proprio successo a un’abile azione collegiale, sapientemente mascherata da potere personale? E, soprattutto, la democrazia ha bisogno del leader forte o questo è un ruolo più adatto ad altri regimi?

Un volume apparso nel Regno Unito (The myth of strong leader. Political leadership in modern age, Vintage Books, London, pp. 466, £. 11.99), e purtroppo ancora non tradotto nel nostro Paese, penetra con efficacia in questi interrogativi e prova ad annullare tanta falsa coscienza che si è imposta troppo frettolosamente nel nostro dibattito. L’autore, Archie Brown, professore emerito all’università di Oxford, parte spiegando che per comprendere la leadership è fondamentale l’analisi del contesto sociale, economico e culturale. Ciò permette di distinguere diversi ambiti nei quali la leadership assume significati e valori diversi e aiuta a capire che sono spesso i grandi mutamenti, come le crisi, la povertà o le guerre, a far emergere un leader e non le sue presunte virtù innate.

Lo studioso si incarica di sfatare molti miti legati al ruolo del leader o, quanto meno, a evidenziare la scarsa scientificità di alcune tesi a partire da quella che ritiene il fattore leader decisivo nell’esito elettorale. Citando molte ricerche comparate su diversi paesi, Brown giunge alla conclusione che questo assunto «è semplicemente sbagliato». I dati, infatti, dimostrano che ben altri fattori intervengono nella scelta degli elettori, orientandola in maniera determinante. Certo, permane un’influenza del leader, ma quel che più conta resta il contesto. Persino nei sistemi presidenziali, dove per natura il voto è concentrato sulla persona, l’enfasi sul leader andrebbe contenuta come dimostrerebbero i casi di Kennedy e Obama, ritenuti vincitori soprattutto per la loro personalità. Per l’autore, infatti, il contesto delle elezioni del 1960, quando Kennedy sconfisse Nixon, e quello del 2008 nel quale Barack Obama prevalse su McCain, era fortemente sbilanciato a favore dei Democratici che, con ogni probabilità, avrebbero vinto anche con un altro candidato.

La parte più corposa del volume è dedicata alla classificazione dei modelli secondo i quali è possibile catalogare la leadership politica nell’età moderna. Una prima categoria presentata è quella del redefining leader, cioè di un leader in grado di porre in essere cambiamenti radicali senza però mutare il sistema politico. Si tratta di casi nei quali il leader, disponendo di maggiori risorse politiche, può essere il motore di questo cambiamento; tuttavia, spiega Brown, molto spesso il successo di questo tipo di leader è il prodotto di un’azione collettiva. Rientrano in questa categoria i casi di Franklin D. Rooselvet, Lyndon B. Johnson e Margaret Thatcher.

Un modello che spicca nelle proposte di Brown è quello della «leadership trasformazionale». Con ciò egli si riferisce a quel tipo di leadership in grado di operare un vero e proprio cambiamento di sistema, politico o economico, sia per il proprio paese che, in casi più rari, per il contesto internazionale. L’importante è che questo cambiamento non sia violento, come nel caso della leadership rivoluzionaria, sulla quale l’autore è più scettico. I casi presentati come paradigmatici della leadership trasformazionale sono quello di de Gaulle in Francia, quello di Suárez nella Spagna postfranchista, quello di Gorbachev in Urss, quello di Deng Xiaoping in Cina e quello di Nelson Mandela in Sudafrica. Pur con le varie differenze, anche nei casi di leader trasformazionali non bastano le qualità personali a spiegare tutto. Ciascuno di questi leader presi in esami si distingue, ovviamente, per aver messo in rilievo nei processi di mutamento alcune caratteristiche personali più di altre, ma molto è dipeso dalle determinate circostanze che hanno influito sugli esiti della loro azione.

Il modello di leadership di maggior successo, sostiene Brown, è quello del leader «debole» cioè colui il quale media con i suoi colleghi, si consulta, ha un atteggiamento aperto e valorizza il più possibile il pluralismo. Un modello perfettamente democratico visto che la leadership forte è tipica dei regimi autoritari i cui casi citati, cioè Mussolini, Hitler e Stalin, «sono l’apoteosi dell’illusione che ciò di cui l’umanità ha bisogno sia un leader forte».

Il recupero di una dimensione collegiale è auspicabile, per Brown, non solo nelle sedi istituzionali ma anche nei partiti che, più che puntare sui leader, dovrebbero costruire consenso su idee, valori e programmi. Al contrario «i leader che credono di avere un diritto personale a dominare il processo decisionale in diversi settori della politica e che cercano di esercitare tale prerogativa fanno un cattivo servizio sia al buon governo che alla democrazia. Essi non meritano seguaci, ma critici».

Una lezione che qui in Italia fatichiamo a fare nostra.