Un libro di storia che ha nel titolo la parola «terrorismo» è una occasione da non perdere. Viviamo immersi in un presente senza tempo: l’orizzonte è occupato da una specie di terza guerra mondiale contro il terrorismo. I «Guantànamo files» documentano quante e quali torture siano state praticate nel territorio extra-legem della concessione strappata a Cuba dall’imperialismo americano del primo ‘900 mentre giudici e governo degli Stati Uniti chiudevano gli occhi e la cultura giuridica del paese abituato a definirsi orgogliosamente «governato dalla legge» scivolava verso gli abissi della legittimazione di trattamenti degradanti in nome della guerra al terrorismo. E ora, ecco che lo storico Santo Peli propone di collegare la Resistenza col terrorismo in Storie di Gap Terrorismo urbano e Resistenza (Einaudi, pp. VIII-280, euro 30,00).
La Resistenza è un’epopea di montagna, non la si può immaginare senza paesaggi alpini. Lo dicono le sue canzoni: «Dalle belle città date al nemico/ fuggimmo un dì su per l’aride montagne»: ma se il partigiano fosse rimasto sulla montagna, magari sepolto «sotto l’ombra di un bel fior», la storia dell’Italia sarebbe stata diversa. Nessuno si sarebbe accorto che c’era una guerra civile, così come nessuno seppe allora della deportazione degli ebrei del ghetto di Roma o della strage di Meina. Gli occupanti tedeschi avevano tutto l’interesse a tenere all’oscuro la popolazione e a presentarsi come i tutori dell’ordine che il regime repubblichino non era in grado di garantire. Così all’arrivo degli alleati gli italiani sarebbero usciti dai rifugi antiaerei né più né meno come vi erano entrati. Fu pensando a come trasformare la guerra in rivoluzione sociale e politica che a fine settembre 1943 il Partito comunista dette vita, accanto al modello organizzativo delle nascenti brigate Garibaldi, alla costituzione dei Gap, gruppi d’azione patriottica: accanto al modello iugoslavo della guerra per bande i comunisti si importava così in Italia quello francese dei «Francs-tireurs et partisans».
Il colore italiano lo dava l’epopea risorgimentale: il nome di Garibaldi, l’evocazione dei «patrioti», la Resistenza come secondo Risorgimento. In realtà quello che fu organizzato coi Gap fu un progetto di terrorismo urbano. Fu voluto e attuato «solo dal partito comunista», come scrisse Pietro Secchia : anche se non mancarono apporti significativi del Partito d’azione e del Partito socialista. Tema duro e difficile: finora nessuno lo aveva percorso in modo sistematico. Difficile per la mancanza o la dispersione delle fonti, che rendono impossibile una ricostruzione dettagliata capace di mostrare i fili che connettono tante storie di individui e di piccoli gruppi; ma difficile anche per ragioni inerenti il fenomeno del terrorismo. In questo libro appare straordinariamente interessante l’analisi di come fu creato il terrorista quale tipo umano. C’è un sentimento comune, una repulsione che scatta davanti al compito di uccidere a sangue freddo una persona che non si conosce. L’odio contro un fascista, come il colonnello Ingaramo, una spia come il Pollastra (Bruno Landi) o Nello Nocentini, un torturatore come il maggiore Carità, era una spinta sufficiente all’azione: si poteva contare anche sulla approvazione del quartiere popolare antifascista. Ma perché uccidere a freddo un vecchio professore indifeso, come Giovanni Gentile? O un soldato tedesco, un giovane uomo ignaro e senza altra colpa che di essere un occupante straniero? Non ci fu certo il tempo di selezionare e addestrare i membri delle Gap. Da qui gli episodi di attentati falliti per l’invincibile difficoltà a diventare un assassino di persone sconosciute e indifese. Eppure non c’è dubbio che la necessità storica e politica della discesa della guerra civile nelle città esce confermata dallo studio di Peli e le vicende individuali da lui ricostruite ci riportano il sapore aspro del risveglio a caro prezzo degli italiani dall’attendismo, dalla torpida quiete ventennale del regime.
Quando i Gap cominciarono a uccidere non solo fascisti italiani ma anche soldati tedeschi si scatenò, come previsto, la reazione in forma di rappresaglie. E la popolazione italiana, duramente risvegliata dall’assuefazione al regime di occupazione tedesca apparentemente pacifica, pagò prezzi di sangue. Si aprirono da allora ferite difficili da rimarginare: sappiamo bene quale lunga scia di polemiche abbia lasciato l’episodio che portò alle Fosse Ardeatine e quanto inchiostro continui a scorrere ancora intorno all’uccisione di Giovanni Gentile. Da qui emerge un problema generale attualissimo, di cui Santo Peli illumina la natura tragica: la difficoltà di creare il terrorista come tipo umano capace di uccidere a freddo, di mettere nel conto il prezzo di vite innocenti che sarà pagato.
Leggendo le sue pagine viene in mente una scena del film di Gillo Pontecorvo, La battaglia di Algeri: quella della donna che mette la bomba in un mercato dove stanno entrando donne e bambini. Nella Resistenza italiana raccontata da Santo Peli incontriamo donne e uomini a cui si dovette insegnare a superare la repulsione istintiva a uccidere a tradimento persone sconosciute. Imparare ad ammazzare qualcuno senza l’impulso dell’offesa da risarcire o della necessità di difendersi voleva dire passare dal tipo del partigiano (il nemico assoluto, come l’ha definito Carl Schmitt) all’altro e ben diverso livello, quello del terrorista. E non fu facile creare questo nuovo tipo umano. Lo si vide ripetutamente nella storia delle azioni di quei mesi, quando i primi membri dei Gap non riuscivano a premere il grilletto; erano persone di indiscutibile valore e determinazione, ma nel momento decisivo li bloccava un istinto, un interdetto morale profondamente radicato.
Di fatto l’esperimento dei Gap fu breve, limitato a pochi gruppi o individui, minato da una incredibile povertà e precarietà di mezzi: si pensi che i gappisti che il 1° dicembre 1943 uccisero a Firenze Gino Gobbi, il comandante del distretto militare, avevano due biciclette in quattro e due pistole malandate di cui una si inceppò. Quelli che a Roma uccisero un militare tedesco dovettero servirsi di trincetti da calzolaio. La storia dei Gap ricostruita con una ricerca paziente e accurata da Santo Peli fu una successione di tentativi e di fallimenti, di piccoli gruppi presto disintegrati da errori e tradimenti; ma fu anche storia di eroismi straordinari, in cui brillarono specialmente le donne. E comunque la resistenza a uccidere i tedeschi rimase come un ostacolo difficile da superare anche quando la lotta dalle città si trasferì alle campagne. Il che avvenne nell’estate del ‘44 . Fu a questo punto che, conclusa la stagione dei Gap, entrò in scena un nuovo progetto strategico, quello delle Sap.
Per dare vita all’insurrezione di popolo come vero momento di liberazione nazionale il terrorismo non bastava. Bisognava estendere la rivolta, coinvolgere la popolazione. Questa l’idea di Togliatti nell’appello lanciato da Napoli il 6 giugno 1944. Fu la svolta che portò alla costituzione delle Sap: squadre reclutate dal proletariato di fabbrica delle città del triangolo industriale, o dalle masse contadine dell’Emilia Romagna. Queste squadre svolsero un’azione di attacco contro nemici fascisti e occupanti tedeschi legandola però a compiti di aiuto alla popolazione. A Torino, a Milano, vennero abbattuti alberi secolari per portare legname alle famiglie: e fu ancora a Torino che furono prelevati e distribuiti sei quintali di sale da parte dei sappisti.
I protagonisti cambiano, non sono più i vecchi militanti (trenta-quarantenni in realtà): i membri della brigata genovese dei Balilla sono ragazzi di vent’anni e anche meno. Quando il terrorismo si muove nelle campagne non è più quello delle piccole unità isolate che si muovono nel buio delle notti tra i vicoli cittadini: quello che nasce e si sviluppa con le Sap è una guerra contadina contro il nemico di classe, un fenomeno di massa dove chi agisce può contare sulla solidarietà e sull’aiuto della popolazione. Queste pagine ci guidano nelle campagne emiliane, distinguono con mano sicura le differenze tra il modenese, il ferrarese e il reggiano.