L’incontro imprevedibile tra Raymond Chandler e Pedro Almodovar, tra le atmosfere sobriamente sinistre del noir d’annata e l’esuberanza adolescenziale della cultura spagnola della ritrovata libertà. E, a fare da sfondo al convergere di traiettorie narrative tra loro apparentemente così lontane, una villa della costa valenciana dove il più bizzarro degli investigatori privati si misura con uno dei temi classici del romanzo di ispirazione poliziesca, quello del «doppio» e dello scambio di identità.
Nel suo nuovo romanzo, Un buon detective non si sposa mai, appena pubblicato da Nutrimenti (pp. 288, euro 17) nella bella traduzione di Luigi Scaffidi, Marta Sanz gioca volutamente con le citazioni, a volte esplicite, come la frase del papà di Marlowe che dà il titolo al libro o i molteplici rimandi a Hitchcock, a volte solo sussurrate e cariche di ironia, come gli echi di Poe che accompagnano la scoperta di un assassinio dalle modalità particolarmente complesse.
Per la scrittrice e filologa spagnola, autrice anche di raccolte poetiche e saggi, e che collabora alle pagine culturali di alcuni dei maggiori quotidiani iberici, la «novela negra» è del resto soprattutto un pretesto con cui partecipare ad una sorta di romanzo di formazione collettivo della nuova Spagna: il ritratto di un’umanità che cerca la propria identità ben al di là dell’abituale, e per questo decisamente rassicurante, catalogo delle maschere del bene e del male che occupano di norma la scena del «giallo».
«Con la letteratura poliziesca ho un rapporto di amore-odio – ha spiegato del resto la stessa Sanz nel corso di un’intervista rilasciata di recente ad un giornale di Barcellona – Di autori come Hammett, Chandler o Highsmith apprezzo la capacità di costruire personaggi che si muovono in universi ristretti, oppressivi, il saper creare ambienti claustrofobici dove regna un’intimità perversa, frutto di una società che sta marcendo e dove la corruzione è norma perfino nella vita domestica». «Al contrario – ha aggiunto la scrittrice -, non sono in alcun modo interessata a rendere avvenente l’orrore, ad estetizzare la violenza e l’oppressione attraverso un linguaggio che ne sfrutti l’aspetto morboso, come accade talvolta con la cronaca nera che domina i telegiornali».
Costruiti intorno ad una lingua volutamente colta, che si offre divertita e intrigante alla scoperta dei lettori, i romanzi di Sanz sfruttano invece fino in fondo l’arte della seduzione del poliziesco classico per poi immergersi a capofitto nelle spirali di un labirinto emozionale che lascia senza fiato, anche se poco o nulla sembra essere accaduto nel frattempo. La forza di una scrittura che sembra possedere il potere ipnotico della scoperta e della perdita dei punti di riferimento abituali, la capacità di giocare con la tradizione narrativa e romperne, dopo solo poche righe, la geometria abituale a beneficio di un linguaggio a prima vista scarno e affilato.
Così anche questa seconda avventura di Arturo Zarco – il detective gay già protagonista di Black, black, black, il romanzo pubblicato sempre dall’editore romano lo scorso anno – rappresenta una nuova sfida, un’ulteriore discesa integrale in uno scenario che sembra aver smarrito ogni sorta di «segnali stradali».
Come del resto indica lo stesso eroe riluttante che Sanz ha scelto per guidarci alla scoperta del «mistero» e che si presenta così ad una sua interlocutrice: «Io sono piuttosto un frocio di prima categoria. Mi scandalizzo da solo per le parole con cui mi sono appena descritto. I suoi occhi invece scintillano. Mi trova divertente. Forse perché non comprende fino a che punto è vero che sono un frocio di prima categoria come è vero che viviamo in un mondo dove fanno simpatia solo gli svergognati, i bon vivants, i ricchi che non piangono perché non ne hanno motivo, quelli che hanno approfittato di tutte le opportunità e quelli che hanno rivenduto a un prezzo maggiore di quando lo hanno comprato e quelli che hanno buttato nell’inceneritore l’assurdo codice morale che prescrive che l’avidità e l’incesto vanno puniti per legge».
Stavolta, Arturo, detective in vacanza, ma soprattutto in fuga dalle angherie di una ex moglie e dai tradimenti di un giovane amante, finirà per ritrovarsi in una villa della Costa Brava, apparentemente accogliente ma in realtà quasi una trappola degna di Agatha Christie – autrice anch’essa tirata in ballo a più riprese nelle pagine del romanzo. La casa, che come l’investigatore scoprirà poco per volta è in grado di celare ogni sorta di segreto, è infatti il regno di una stirpe di gemelle monozigoti, le tre generazioni di «doppi» femminili della famiglia Orts: Amparo e Janni, le capostipiti, le figlie di quest’ultima, Marina e Ilse, le figlie di Ilse, Estefania e Erica.
È qui, all’ombra di un benessere fin troppo esibito, in una sorta di Las Vegas mediterranea tra palme e casinò, in questo paradossale universo d’identità replicate a coppie che il personaggio creato da Marta Sanz finirà inesorabilmente, e in larga misura suo malgrado, per imbattersi in più di un delitto e in un intrigo che si rivelerà però ordito per il più antico dei moventi: l’interesse. Se in Black, black, black l’atmosfera che faceva da sfondo all’indagine era quella di un vecchio condominio di Madrid, le polverose esistenze piccolo-borghesi messe a dura prova dalla vita, le violenza di genere, in Un buon detective non si sposa mai a finire sotto la lente di Arturo Zarco sono il mondo dei ricchi, comprese le ascendenze tedesche di una parte dell’élite spagnola, il groviglio di meschinità, violenza e placido furore che può nascondersi in seno alla famiglia.
Marta Sanz lo fa con estrema sobrietà, senza prendersi mai troppo sul serio e rigorosamente in punta di piedi, ma è fin troppo chiaro come per questa protagonista della nuova narrativa spagnola, la partita del «romanzo» si giochi in campo aperto: «Del noir mi interessa soprattutto la componente di critica sociale, non tanto l’eventuale esotismo o l’aspetto ’cospirativo’. Quello che cerco di combattere è invece l’idea che la legge del mercato possa filtrare fin negli schemi retorici della letteratura, trasformando questo scavo nella realtà in un semplice strumento per attirare i lettori con pagine a effetto, quasi un esercizio di violenza ai loro danni. Di questo, Arturo Zarco non si renderà mai complice».