Ho appuntamento con Lionel Baier il 18 febbraio 2016 in un hotel di Place de la République a Parigi, poco distante nello spazio e nel tempo da uno dei luoghi degli attacchi terroristici del 13 novembre 2015 che hanno sconvolto una Francia ancora visibilmente scossa e in stato d’emergenza. La statua di Marianne al centro della piazza è piena di messaggi di solidarietà, candele, fotografie. Di lì a qualche settimana, in occasione della protesta contro la Loi Travail, quel luogo avrebbe furiosamente messo da parte la commemorazione per rivolgere nuovamente lo sguardo al futuro, diventando teatro delle riunioni del movimento Nuit debout che – animate da un nuovo vento di rivendicazione – chiedono di reinventare gli spazi della politica e di immaginare nuove tutele per il lavoro, nuove idee di cittadinanza.

Anche di questo avevamo un po’ parlato, qualche tempo prima, con Lionel Baier. Obiettivo della conversazione era quello di conoscere meglio un regista ben noto in Svizzera e in Francia e solo occasionalmente proiettato in Italia. Inspiegabilmente: il suo cinema è erede di un incontro felice tra autorialità e cinema popolare, quasi fosse un figlio spirituale di François Truffaut. Siamo partiti da lontano, chiedendogli di presentarsi al pubblico italiano, per sapere come mai avesse deciso di fare il regista, quali fossero la sua formazione, i suoi interessi, il suo rapporto con la settima arte. Presentiamo qui un estratto della conversazione con il regista, pubblicata in versione integrale nel catalogo della sesta edizione del Sicilia Queer filmfest, che avrà luogo a Palermo dal 29 maggio al 5 giugno 2016 e che dedicherà un focus al regista svizzero.

Il tuo primo lungometraggio, Celui au pasteur (ma vision personnelle des choses) del 2000, è un documentario su tuo padre, con hai avuto un rapporto difficile.

In Svizzera, a Losanna, la Chiesa Protestante era una Chiesa di Stato. Ciò vuol dire che i pastori erano pagati ed erano dei funzionari. Alla fine degli anni Novanta lo Stato ha chiesto ai pastori di tagliare le spese. Era la prima volta che succedeva, i protestanti erano sempre stati la maggioranza nella Svizzera romanda, erano i politici, gli artisti, dirigevano le scuole, il parlamento, tutti erano protestanti. Ma a partire dagli anni Cinquanta, con gli italiani e poi con gli spagnoli e i portoghesi, la popolazione cattolica è aumentata molto. E negli anni Novanta la domanda «Ma chi sono i protestanti e perché dovremmo pagarli?» è diventata molto pressante. E questo ha richiesto a tutta una generazione – quella di mio padre, diventato pastore negli anni Settanta – di ridefinire completamente il loro lavoro. Quello che mi divertiva era che il mestiere del pastore è un mestiere molto atipico, è difficile quantificare il numero di ore di lavoro. Ho sempre visto mio padre lavorare a casa, incontrare persone. Ma improvvisamente gli veniva richiesto di quantificare il lavoro: «Quante ore dedica al culto? Quante all’accompagnamento?». Si sollevavano una serie di questioni ideologiche molto importanti, e il film è stato l’occasione per filmare questo ambiente in via di trasformazione: una certa classe dirigente svizzera stava scomparendo. È stato anche un pretesto per parlare con mio padre e capire un po’ chi era. Credo che quando si girano i primi film si parte sempre da ciò che si conosce per creare una specie di base a partire dalla quale si intende lavorare. «Sono figlio di un pastore, ho avuto un’educazione protestante e questo ha definito molte cose nella mia vita. Racconterò questo e questo e poi quest’altro».

Con La parade (notre histoire) (2002) racconti l’organizzazione del Gay Pride a Sion. In questo film il tema dell’omosessualità entra per la prima volta nel tuo cinema, anche se forse tu non pensi che l’omosessualità sia di per sé un tema. Ci sono omosessuali nei tuoi film, ma non sono rappresentati in quanto tali. Non è un argomento.

Sì, non è un tema, come l’eterosessualità non è un tema in Chabrol. All’inizio quel che mi interessava della parata era l’idea di militanza. Io non ero militante, ma cosa voleva dire esserlo? Quand’è che si diventa una personalità pubblica o politica? Mi aveva colpito che questa manifestazione fosse stata organizzata da alcune donne nel Canton Vallese, un cantone molto cattolico. Avevo letto un articolo su di loro in cui dicevano di aver avuto difficoltà a organizzare la manifestazione perché non avevano sponsor. Ed è vero che le lesbiche, diversamente dagli omosessuali, sono cattive consumatrici: guadagnano meno degli uomini, come tutte le donne, escono meno per locali, hanno una vita meno mondana e quindi, globalmente, consumano di meno. Fino a poco tempo fa non c’erano neanche riviste lesbiche, e quindi non avevano sponsor per organizzare la loro manifestazione. Inoltre c’era stata una reazione abbastanza forte delle associazioni a Losanna, Ginevra e Zurigo, che erano state critiche nei loro confronti perché volevano fare più una marcia che un Gay Pride. E questo mi aveva incuriosito, diceva qualcosa dell’intolleranza che esiste tra noi tutti, al di là della questione dell’omosessualità. Quella che chiamiamo “comunità omosessuale” esiste? E se esiste, io ne faccio parte? Ho sempre avuto la percezione di fare parte della comunità, non so, delle persone che vivono a Losanna o a Parigi, ma non ho mai sentito di far parte di una comunità in particolare. E quindi è un po’ di questo che il film parlava, dell’idea di militanza, di come si crei una comunità e di quanto sia solidale. Poi è diventato un ritratto di questa donna, Marianne Bruchez, l’organizzatrice, una vera eroina da cinema.

Nel film dici: «Non sono mai stato un militante, ma so che è grazie ai militanti che ho potuto vivere in questo modo». Non è un film che non si pone esplicitamente il problema, dunque. È un film che dice «sono consapevole di vivere in una società che proviene da una certa storia».  

 All’inizio degli anni Duemila potevamo permetterci il lusso di non essere militanti: non mi sembra che oggi si possa dire lo stesso. Nel 2016 non si può non prendere la parola pubblicamente nei media quando se ne ha l’occasione. Bisogna farlo perché la situazione è grave ovunque in Europa. Sedici anni fa essere omosessuali non era così complicato, almeno nelle grandi città. Si poteva dire pubblicamente di essere omosessuali senza provocare una levata di scudi. È cambiato tutto, è cambiato in Francia, è cambiato ovunque. La situazione si è radicalizzata e quindi penso che il film oggi potrebbe essere considerato quasi esotico. Quando avevo 24, 25 anni, quando ho girato il film, potevo permettermi di non essere militante. Oggi trovo che sarebbe codardo non esserlo.

Pensi che la situazione sia peggiore oggi?

Sì. Per esempio alla fine di febbraio si voterà per delle leggi di espulsione degli stranieri che hanno compiuto dei reati, leggi praticamente antidemocratiche. E visto che in Svizzera tutto deve essere votato dal popolo, sicuramente passeranno [in realtà la votazione del 28 febbraio 2016 verrà respinta col 58,9% dei voti contrari, n.d.r.]. Io sono fortunato perché ho accesso ai media, posso parlare, scrivere sui giornali. Sedici o diciassette anni fa le leggi non erano così vincolanti e pericolose, potevo permettermi di dire che non facevo politica. Oggi mi sembrerebbe assolutamente impossibile dire: «Aspetto e sto a vedere cosa succede». E non riguarda solo la Svizzera, trovo che la situazione in Francia sia disastrosa rispetto a come si parla delle minoranze, delle donne, degli stranieri, dei musulmani. Nel 2014, poco lontano da Place de la République, ho visto delle persone sfilare e urlare «Gli ebrei fuori dalla Francia». Dieci anni fa non lo avrei mai creduto possibile e invece ora succede. Si fanno leggi contro i musulmani, leggi che la gente è pronta ad accettare, e penso che la situazione stia decisamente cambiando. E infatti la tolleranza di fondo che esisteva nei confronti degli omosessuali sta cambiando. Pensiamo alle manifestazioni in Francia contro il matrimonio egualitario, o a quello che è successo una settimana fa in Italia sul matrimonio omosessuale. Le persone si permettono di dire a voce alta cose che, quindici anni fa, non si sarebbero mai permessi. Oggi si sentono liberi di dire: «Sì, gli omosessuali sono come gli animali, è qualcosa di anormale». E la gente annuisce, li invitano nei dibattiti, parlano di razza in televisione, anche se non esiste. «I neri, i bianchi, le razze…»: è un errore semantico e filosofico, ma nessuno li corregge. Quindi mi sembra che, sì, siamo obbligati a essere più militanti di prima.

Questo ha delle conseguenze sul tuo cinema? Penso che ci sia un aspetto politico del tuo cinema, ma che finora non era forse la tua preoccupazione principale. Pensi di dover cambiare qualcosa rispetto al tuo modo di fare cinema?

Sì, certo. Anche se diffido sempre dei cosiddetti film militanti perché penso che spesso l’interesse cinematografico sia subordinato al fatto di far passare un messaggio. Ma quando ho scritto Les grandes ondes (à l’ouest) (2013) sentivo veramente la necessità di parlare dell’Europa. Dobbiamo ricordarci di che cosa ha portato alla sua costruzione, del fatto che fino a non molto tempo fa c’erano le dittature e che siamo sempre a un passo dalla dittatura. Basti pensare a quello che sta succedendo in Polonia, è una situazione in bilico. La nostra generazione pensa che lo Stato di diritto sia normale e invece resta sempre qualcosa di provvisorio, si deve stare attenti. L’idea di Les grandes ondes era quella di fare una commedia popolare cercando di raccontare anche cosa era successo in Portogallo, che con la Spagna era stata tra le ultime dittature europee, e i legami con la crisi attuale in Portogallo. Oggi ci manca quello spirito degli anni Settanta, quando la speranza era considerata un atto politico, mentre oggi non è più così. La politica si costruisce sulla disperazione o sull’aspetto conservatore: le cose devono restare come sono, non cambiare mai. All’epoca c’era una volontà molto forte di cambiamento nella società, e l’obiettivo era fare politica con questa speranza. Si può dire che Les grandes ondes sia stato il mio primo approccio alla politica in un film. Per ora sto scrivendo Au sud, ambientato nelle frontiere meridionali d’Europa. Cambia tutto praticamente ogni giorno, accendo la televisione e guardo: cosa sta succedendo in Grecia? Cosa succede a Lampedusa? Cosa fanno gli ungheresi? Stanno chiudendo le frontiere. Da ieri l’Austria accoglie solo 80 persone al giorno. Mi sembra che la sceneggiatura rincorra gli eventi… Non voglio fare dei film pietistici su questi argomenti, penso che il cinema debba permettere all’intelligenza delle persone di prendere direzioni diverse. E spesso far passare qualcosa attraverso le commedie o i film di svago permette di riflettere in modo diverso, più emotivo, senza puntare un proiettore in faccia alla gente. Fatima, l’ultimo film di Philippe Faucon, non è certo una commedia ma è un film incredibilmente sottile su cosa vuol dire essere una donna di servizio musulmana in Francia oggi. È un film che non accusa nessuno, non è un film a tesi, è semplicemente il ritratto di tre donne: brillante, semplicissimo. Penso che un film così colpisca la mia coscienza politica più di un film considerato “militante”. Credo ad esempio che Bande de filles di Céline Sciamma, pur essendo un film da grande pubblico, dica molto di più sulla visione che ho della Francia di molti film apertamente militanti.

Cosa t’interessa nel cinema contemporaneo? Cosa guardi?

Provo a vedere di tutto. Le serie tv, le commedie, soprattutto i brutti film: sono quelli che t’insegnano di più. Ma provo a vedere davvero il più possibile di cose, un po’ di tutto. Ci sono degli autori che seguo: Nanni Moretti per esempio. La cosa interessante di quando si va al cinema a vedere un film di Moretti è che si hanno notizie dell’autore. In che stato è Nanni Moretti nel 2015 quando gira Mia madre, e nello stesso tempo ci informiamo sull’Italia.

È quello che Daney diceva di Godard: ho voglia di vedere i suoi film anche per sapere come sta.

 E ancor di più quando si tratta di registi così legati alla storia del proprio Paese. Moretti dà informazioni su quel che sente l’Italia. Il rapporto che ha con il cinema in Mia madre, il rapporto fortissimo con la macchina cinema, con l’attore americano che viene a girare in Italia, i rapporti che gli italiani hanno col loro cinema dice qualcosa che le notizie in tv non dicono. Se sento Matteo Renzi parlare in tv posso sapere cosa l’Italia pensa da un punto di vista politico, ma quando vedo delle commedie italiane, anche delle commedie popolari, capisco di cosa è fatta l’Italia di oggi. Alcuni registi del nuovo cinema francese m’interessano molto: Antonin Peretjatko che ha fatto La fille du 14 juillet, uscito due anni fa in Francia, e che ha fatto un film anche quest’anno, lavora a una forma di commedia francese che non esisteva più da molto tempo, molto vicina ai film di Max Pécas, cose molto svalutate. È una persona molto intelligente ed è capace di rimodularle, quindi m’interessa. Il cinema di Jeff Nichols, il regista di Take Shelter: sono contento di vedere il suo prossimo film. Sono andato a vedere Guerre stellari, non tanto perché amo la serie (non ci ho mai capito niente), ma perché da regista mi sembra impossibile non vedere Star Wars oggi. Ho perso ad esempio Hunger Games che è un film che non conosco affatto ma che mia figlia adora. Ho comprato il DVD perché devo vedere questa serie. Mi sembra importante che un regista non resti chiuso nella sua famiglia cinematografica. E poi mi piacciono molto anche le commedie americane, mi affascinano. I film di Judd Apatow ad esempio m’interessano molto. Ma anche molte commedie meno cinefile, di registi meno noti. Sono meno attratto dalle serie: mi sforzo di guardare le serie tv perché lavoro in una scuola di cinema e devo averle viste per poterne parlare con gli studenti. Mi affascinano gli attori delle serie, dopodiché mi sembra che sia davvero il regno degli sceneggiatori e non dei registi. […] Amo il cinema americano quando è girato in studio, lo trovo sempre un po’ debole quando è cinema indipendente. Lo trovo meno interessante perché provano a fare come noi europei, una cosa che loro non sanno fare: esattamente come quando noi proviamo a fare cinema come gli americani siamo poco interessanti. Quel che mi affascina nel cinema americano è il lato industriale e la capacità di arrivare a far crescere il talento in qualcosa di industriale.

Se ripenso a Un autre homme, un tuo film del 2008, avrei detto il contrario. Citi Jim Jarmusch, Gus Van Sant…

Sì, anche se non è che ami particolarmente un regista come Jarmusch. Gus Van Sant mi sembra molto bravo quando è costretto entro vincoli molto forti. È uno dei pochi a cui riesce comunque una forma di indipendenza, forse è il suo lato melodrammatico che fa sì che i film siano visibili. Mi piacciono molto i fratelli Safdie, che hanno appena fatto uscire un film che si chiama Mad love in New York: sono due fratelli, due registi americani indipendenti, e quando vedo i loro film sento la posizione dell’autore. Se sei un regista indipendente americano, per batterti contro l’industria devi rivendicare il tuo lato autoriale. E a volte questo prende troppo spazio e ne lascia meno alla cosa che gli americani sanno fare meglio di tutti, e cioè far lavorare gli attori. Bisogna formare bene gli attori, gli attori sono dei gran lavoratori. Quel che mi piace di più nel cinema americano è il lavoro degli attori. Tornando all’Italia, mi era piaciuto moltissimo il film di Alice Rohrwacher, Le meraviglie: l’ho trovato strepitoso. Non ero in Svizzera in quei giorni, ma alla Cinémathèque hanno fatto una presentazione del giovane cinema italiano, film che non sono stati distribuiti. Arrivano pochissimi film italiani, ed è assurdo.

trascrizione di Emmanuelle Bouhours, traduzione di Simona Marino