La poesia di Andrea Zanzotto, così densa di richiami culturali, così fittamente intellettualizzata, così acutamente sostenuta dalla più lucida e avvertita coscienza teorica e critica (del resto folgoranti sono le pagine critiche di Zanzotto, che è stato certo, pur evitando ogni aura professionale, uno dei maggiori critici del secondo Novecento), si dispone tutta in realtà entro una percezione integrale del mondo, in una postura del corpo, della mente, della psiche: essa scaturisce dall’essere della persona, della sua persona, entro il suo più determinato spazio vitale, dentro l’orizzonte attraversato e vissuto, nella fisicità dei luoghi e delle occorrenze quotidiane, nel respiro molteplice dell’ambiente, nel flusso del tempo che porta con sé oggetti, consuetudini, linguaggi, paesaggi naturali e costruzioni artificiali. Tutto sentito e avvertito attraverso una sensibilità personale in cui la più intensa adesione alla natura, al suo richiamo creaturale, si intreccia con le diversioni del pensiero, con le inquietudini, i turbamenti, le astrazioni della mente: è il corpo stesso del soggetto, con l’esercizio e i disturbi di tutti i sensi, a darsi come sostanza psichica che «sente» il mondo, che sta dentro il presente, dentro la cultura, il linguaggio, la quotidianità, avvertendo al proprio interno tutto il dispiegarsi, l’ansimare, l’aggrovigliarsi, gli scatti di bellezza e gli scarti di degradazione. Questo sentire trova densità e sostanza in quello che viene chiamato inconscio (e che ormai non sappiamo più davvero cosa sia): e si affida direttamente alla poesia, fa della poesia un modo di «esistere psichicamente», disponibilità infantile e ostinazione intellettuale, piccolo scarto del quotidiano e vertiginosa ascesa al sublime, lallazione casalinga e cura per il destino del mondo.

In una riflessione del 1987, Tentativi di esperienze poetiche (poetiche lampo), Zanzotto ha precisato che il rapporto dell’esperienza poetica con «un elemento di sogno (…) continuamente si autosupera in sentimento di realizzazione di un progetto. L’inconscio si produce continuamente, travolgendo consapevolezza e “veglia”, ma attivando insieme una specie di iperveglia spostata in avanti». In questa iperveglia Zanzotto ascolta e scruta il mondo con tutta la tensione del suo corpo/psiche, con l’insondabile allarme dei sensi e con la strenua vigilanza dell’intelletto: ascolta e scruta in una amplificazione e dilatazione dell’udito e della vista che si affida al linguaggio e gli fa scontare tutte le deformazioni e insieme le acquisizioni di quell’iper, di quel troppo che può dar luogo a molteplici disturbi della comunicazione, ma che conduce a rivelare lo stato del mondo. In termini più semplici, la poesia di Zanzotto ha la capacità di sentire il tempo, di scavare nella Storia e nella condizione del presente, proprio perché ha diretta radice in quello stato di iperveglia, di attenzione assonnata, che trova sostanza nella propria radice psicofisica (nel suo essere «dentro» la realtà) e insieme viene esaltata e deformata da un assiduo impegno intellettuale (che tocca quella realtà da «dietro», come lateralmente).

Ne «La Pasqua a Pieve di Soligo» (nella raccolta Pasque, 1973), la ricerca di comunicazione viene affidata a una veglia di iperascolto, «veglio in iperacusia», ascolto dilatato e potenziato (che insieme produce deformazione e conoscenza, una conoscenza che non può prescindere dalla deformazione): e questa iperacusia conduce all’ascolto di ossessivi e distruttivi rumori, di ogni sorta di motori e della violenza dei loro scontri. In tutti i modi Zanzotto ascolta, in una dilatazione sensoriale, che non riguarda soltanto l’udito, ma chiama in causa a livelli diversi tutti i sensi; dominante è comunque l’orizzonte visivo, nei molteplici modi in cui la poesia viene a tracciare immagini, disegni, slarghi di paesaggio, evidenza e apparenza di luoghi reali e immaginari, spesso reali ma proiettati in una sorta di torsione immaginaria. In uno dei tanti effetti visivi dell’ultima raccolta, Conglomerati, l’iper viene direttamente attribuito alla visione: «E poi e poi, cadere, non risorgere, ipervedere / argutamente». Udito e visione, in questo loro necessario eccesso, sono del resto perpetuamente minacciati da disturbi, da fenomeni deformanti: acufeni e fosfeni sono termini emblematici per la poesia di Zanzotto, tanto che il secondo ha dato addirittura il titolo per il secondo volet (1983) della sua «pseudotrilogia».

Ne «La Pasqua a Pieve di Soligo»: «di fosfeni brulica il quadro e il mio corporeo schema, / in fosfeni il perverso e la regola il sempre e il mai scema». Ne La Beltà (1968) il testo dal titolo «Adorazioni, richieste, acufeni» mette in scena proprio il disturbo che il rumore della Storia causa al sogno di adorazione della bellezza: fischi negli orecchi che tramano il perdersi e negarsi dei luoghi edenici, di ogni ritorno a un’infantile adesione al mondo. Poi in «Biglia» (ancora in Pasque), poemetto in cui molto forte è la presenza di dati sonori, dove si avvitano «lente connotazioni / in detonazioni / clic sgrìdolo e pizzico», tra fischi, versi di uccelli, rumori, gemiti e sospiri, c’è un invito a slacciare «l’otre a fosfeni e acufeni». «Biglia» è un susseguirsi di auscultazioni entro una gabbietta/casupola: in un testo di Idioma si dice che esso sarebbe stato ispirato da un «parente eremita» che «fu l’ultimo tuo compagno nell’auscultazione / di certi sistemi del silenzio / di certe microvocalità stellari». Questo testo di Idioma è immediatamente successivo a quello dal titolo emblematico «Ascoltando dal prato», dove un suono fuori misura di pianoforte suscita la disposizione all’ascolto della realtà, alla trascrizione di un «possibile universale spartito».

La realtà si ascolta attraverso il linguaggio, che porta insistentemente nella poesia – facendo un uso spesso ironico e deformante della vecchia risorsa dell’onomatopea – gli scarti e i frammenti del rumore contemporaneo, nella sua dirompente e micidiale varietà. Proprio negli spazi dell’iperveglia che è stata la vita di Zanzotto, ascoltando il mondo dalla sua «pieve saccheggiata» (come ebbe a dire Vincenzo Consolo), la sua poesia ha dato voce allo sfaldarsi e al lacerarsi del mondo, alle derive dell’ambiente fisico, mentale, linguistico. Poeta dei luoghi e dell’impossibile salvezza di un mondo insidiato dal profitto, dall’aggressività, dall’irresponsabilità, dall’indifferenza, dai miti mediatici che si succedono in incontrollabile ed effimera velocità: e tanto più negli ultimi anni egli ha sentito tutto il peso di queste lacerazioni, anche con scatti che a posteriori possono apparire profetici, come i versi in dialetto affidati al suo Nino in un testo di Sovrimpressioni (2001) che invano mette in guardia da una scriteriata moltiplicazione delle viti. Si pensa subito alla recente sciagura di Refrontolo, proprio nei luoghi zanzottiani: «State acorti, no stè pi sgionfar al balón / co tuti sti feri, ’ste rede, ’ste vì cussì fisse romai, / se no col primo sión / de piova de ’sti tenp / chemi par fortuna no vedarò mai / a bas vien-dó tut aa rodolón! / Sul me lógo non posse lagnarme, / ma a tuti quanti ve zhighe ‘Stè acorti!’ // Ma fursi mi qua parle, da mort, a morti» (State accorti, non mettetevi a strafare – gonfiare il pallone – / con tutti questi pali metallici, queste reti, queste viti così fitte ormai, / altrimenti col primo gran temporale / di questi tempi / che per fortuna non vedrò mai / in fondo vien giù tutto, a rotoloni! / Sul mio potere non posso lamentarmi / ma a tutti vi grido ‘State accorti’. // Ma forse io qui parlo, da morto, a morti).