C’è una terribile ipocrisia in giro per l’Europa e ovviamente in Italia. È quella dei governi che oggi tuonano contro gli scafisti da «bombardare» e i «mercanti di schiavi». Un’ipocrisia tanto più repellente, quanto più suona come la giustificazione preventiva di un intervento militare in Libia, o in prossimità delle sue coste, travestito da azione umanitaria. D’altra parte, l’ipocrisia è la norma italiana in queste materie. Un anno fa, il governo Renzi vantava il successo di Triton, «a costo zero», come ripeteva gioiosamente Alfano. Oggi lo stesso ministro, dopo l’immane strage in mare, dichiara l’inadeguatezza dell’operazione. Con ministri del genere c’è sempre da aspettarsi il peggio.

Intendiamoci. Le organizzazioni di scafisti esistono, così come esiste una vasta documentazione degli atti di pirateria: natanti abbandonati alla deriva, migranti gettati in mare, violenze di ogni tipo. Ma prendere esclusivamente di mira i «mercanti di schiavi» significa sia falsificare agli occhi dell’opinione pubblica la natura delle migrazioni, sia gettare le premesse di nuove sciagure.

Infatti, gli scafisti non fanno che lucrare sulla domanda di mobilità dei migranti. Mobilità nel senso di fuga dalla guerra, di ricerca di opportunità o semplicemente di sopravvivenza. Finora l’Europa ha ignorato le migrazioni, pensando forse che un limitato numero di morti garantisse la propria tranquillità o meglio la propria abulia burocratica. Ora, di fronte alla dimensione di queste tragedie, si inventa la guerra agli “schiavisti” e il «bombardamento e/o distruzione dei barconi», criminalizzando così, insieme a loro, anche le vittime.

L’ipocrisia dilaga anche quando si vorrebbero distinguere i rifugiati dai migranti, come se, oggi, povertà e guerra non fossero realtà strettamente implicate. Si fugge da paesi devastati dalla guerra e dall’impoverimento causato dalla guerra, da paesi distrutti da stolti interventi occidentali o al centro di inestricabili grovigli geopolitici. Si fugge dall’Isis, ma anche dai droni, da Assad e dai suoi nemici, dal deserto e dalle steppe in cui scorrazzano milizie di ogni tipo. Si fugge da città invivibili e da un’indigenza resa ancora più insopportabile dal dilagare di nuove tecnologie che mostrano com’è, o finge di essere, il nostro mondo. Si fugge in Giordania, in Turchia e anche in Europa. Non c’è forse ipocrisia peggiore di quella che lamenta senza soste un’invasione dei nostri paesi, quando invece l’Europa si mostra il continente più chiuso e ottuso di fronte alla tragedia umana e sociale delle migrazioni.

Pensare di cavarsela mandando i droni a bombardare i barconi è un’idea folle, che può venire solo ai poliziotti finiti a dirigere Frontex, l’agenzia europea che ha messo in piedi Triton, con l’obiettivo di tenere lontani i migranti, infischiandosi degli annegamenti. Come distinguere i barconi vuoti da quelli pieni, i pescherecci o i piccoli mercantili dalle carrette della morte? Tutto il mondo sa che i droni di Obama polverizzano soprattutto i civili in Afghanistan. Potete immaginare un drone capace di distinguere, in un porto della Libia, tra scafisti e pescatori? A meno che, naturalmente, tutta questa enfasi guerresca, bagnata da lacrime di coccodrillo per le vittime degli schiavisti, non sia al servizio di un’ipotesi strategica molto più prosaica e molto meno umanitaria.

Un’Europa politicamente acefala, guidata da una Germania bottegaia, pensa forse di «risolvere» la questione delle migrazioni con un cordone sanitario di navi militari e magari di campi di internamento in Libia e nei paesi limitrofi? Tutto fa pensare di sì. Ma se fosse così, non si tratterebbe che di una guerra ai migranti travestita, di un umanitarismo peloso, di un neo-colonialismo mirante a tenere alla larga i poveri da un occidente in cui dilagano pulsioni xenofobe. Se fosse così, altre immani tragedie si annunciano.