Sono passate poco più di due settimane dalle elezioni e lo scenario politico portoghese non è mai stato così incerto. Solamente ieri sono iniziate le consultazioni dei partiti con il presidente della Repubblica Aníbal Cavaco Silva e, forse, domani si saprà chi sarà il prossimo primo ministro.

Antonio Costa, segretario del Partido Socialista ha annunciato ieri pomeriggio il raggiungimento di un accordo di legislatura con il Bloco de Esquerda (Be) e il Partido Comunista Português (Pcp) per la formazione di un governo stabile. Bisogna ora vedere quali saranno le decisioni del capo dello stato che, in autonomia, potrebbe optare per strade differenti.

Fino a qui la cronaca.

In realtà la discussione intorno alla formazione del nuovo governo ha scatenato un ampio e partecipatissimo dibattito sul funzionamento intrinseco del sistema politico così come è andato configurandosi dopo il 1976.

L’oggetto del contendere è tanto semplice quanto complesso: possono partiti “antisistema” fare parte di un esecutivo? Già, il termine antisistema con la caduta del muro di Berlino è caduto in disuso, oggi gli si preferisce quello di populismo. E

ntrambi i sostantivi indicano quei partiti il cui programma sarebbe incompatibile con alcuni principi e valori non necessariamente costituzionali ma considerati imprescindibili.

Da un punto di vista costituzionale, come è ovvio, non c’è nessun impedimento a che il Be e il Partido Comunista Portugês (Pcp) entrino nella “stanza dei bottoni”. Così come è ovvio che la definizione di partito antisistema non sia oggettiva ma pretestuosamente politica. Tuttavia il fronte dei contrari ritiene che dai dettami della costituzione materiale – ovvero di come la carta fondamentale debba essere interpretata sulla base del suo funzionamento – si evincerebbero due categorie di partiti: quelli atti a formare governi, appartenenti all’”arco costituzionale” e partiti che non dovrebbero far parte di nessuna maggioranza perché, tautologicamente, non ne hanno mai fatto parte.

Da un punto di vista strettamente tecnico compete al presidente della Repubblica, sentiti i partiti e sulla base dei risultati elettorali, nominare il primo ministro. Tuttavia anche su questo punto i pareri tra favorevoli e contrari a un fronte delle sinistre sono discordanti: la scelta deve ricadere sul leader del partito, o della coalizione, che ha vinto le elezioni, come si è sempre fatto, o basta che sia garantita al premier una maggioranza parlamentare indipendentemente da quali gruppi facciano parte della coalizione?

Ancora: i partiti sono liberi di fare ciò che ritengono opportuno oppure devono rispettare il “contratto” stipulato con gli elettori: delega o procura?

Insomma, così, repentinamente, dopo quasi mezzo secolo dalla Rivoluzione dei Garofani, in Portogallo si parla non solo di esecutivi, ma dell’essenza stessa di quella che dovrebbe essere una democrazia rappresentativa.

Per riprendere le dicotomie di un dibattito ancora più antico: da un lato ci sono gli elitisti – coloro cioè che in qualche modo ritengono che il potere esecutivo debba essere protetto dai mutevoli umori dell’opinione pubblica – e dall’altra, i sostenitori del parlamentarismo, per cui i deputati eletti dai cittadini debbono esercitare la propria funzione senza vincolo di mandato in rappresentanza della nazione.

In sostanza, mentre in Italia prevalgono le correnti che potremmo definire elitiste, cioè quelle più inclini a favorire la supremazia dell’esecutivo sul parlamento, a Lisbona si sta cercando di risolvere la crisi di legittimazione tornando a un parlamentarismo puro.

Non stupisce quindi che, data l’importanza degli avvenimenti, i toni, quanto più ci si avvicina il momento in cui Cavaco Silva dovrà effettuare una scelta molto delicata, si facciano incandescenti.

Manuela Ferreira Leite, ex leader del Partido Social Democrata (Psd – centro destra) commenta in questo modo l’ipotesi che il Ps possa guidare un governo al posto dell’alleanza vincitrice, di misura, delle elezioni: «A causa dell’interpretazione che si sta dando dei risultati elettorali siamo di fronte a un paese in stato di choc, una grande parte di esso in panico (…). Questa interpretazione è assolutamente abusiva e corrisponde a un vero colpo di stato» (TVI, 16 ottobre 2015).