Reyhaneh Jabbari è stata impiccata. A nulla sono valsi gli appelli di Amnesty International per una revisione del processo, che presenta vari vizi procedurali a cominciare dal licenziamento imposto all’avvocato di Reyhaneh. Mentre il boia si avvicinava, la giovane, 26 anni, colpevole di aver ucciso l’uomo che tentava di stuprarla, ha deciso di non dichiarare il falso. La famiglia dell’impiegato del ministero dell’Intelligence, Morteza Sarbandi, ucciso in circostanze di legittima difesa dalla ragazza nel 2009, chiedeva a Reyhaneh di negare che avesse subito un tentativo di stupro. E lei non lo ha fatto.

«Mia figlia con la febbre ha ballato sulla forca»: sono state le commoventi parole della madre, Shole Pakravan, nota attrice di teatro iraniana. Ad attendere l’esecuzione c’erano tante persone, familiari e amici. Politici e intellettuali di tutto il mondo hanno condannato l’esecuzione. In particolare, Amnesty ha duramente criticato l’impiccagione di Reyhaneh, definendola una «nuova macchia per l’Iran nel rispetto dei diritti umani» e un «affronto alla giustizia». Ma l’ufficio del procuratore di Tehran ha reso noti alcuni particolari sulle circostanze dell’omicidio, sempre negati dalla giovane. Secondo il procuratore, Reyhaneh «aveva acquistato un coltello da cucina due giorni prima dell’omicidio» e avrebbe colpito l’uomo alle spalle. Eppure sembra soprattutto un tentativo di arrampicarsi sugli specchi per legittimare una delle più ingiuste decisioni dei magistrati iraniani dopo la rivoluzione.

L’orribile vicenda di Reyhaneh mette in luce invece il mancato rispetto dei diritti umani in Iran, nonostante il governo moderato del presidente Hassan Rohani abbia promesso un’inversione di rotta, ostacolata dai radicali, vicini all’ex presidente Mahmud Ahmadinejad. Nel paese si fa un uso eccessivo della pena di morte, secondo Amnesty, il numero delle esecuzioni, lo scorso anno, va tra le 369, ufficialmente dichiarate, e le 700, ponendo l’Iran al secondo posto dopo la Cina per numero di esecuzioni.

Non solo, l’incredibile storia di Reyhaneh conferma la difficile condizione delle donne iraniane. Ormai i casi si moltiplicano. Anche ieri a Tehran, decine di donne sono scese in piazza in solidarietà con le giovani sfregiate da paramilitari a Isfahan perché portavano veli troppo scollati: una di loro, Soheila Jorkesh, è morta dopo giorni di agonia. Mentre Ghoncheh Ghavami resta in carcere solo per aver assistito a una partita di pallavolo maschile a Tehran e l’avvocato Nasrin Sotoudeh non potrà difendere gli attivisti iraniani per i prossimi tre anni dopo la decisione della Corte di Evin di toglierle la licenza.

Le donne iraniane sono state le protagoniste della rivoluzione del 1979 ma hanno subito decisioni discriminatorie: l’infausto obbligo del velo, limiti nei diritti di successione e processuali. Negli anni di governo del riformista Mohammed Khatami qualcosa è cambiato: è stata approvata una legge che conferisce alle madri divorziate la possibilità di conservare il controllo sui figli maschi. Inoltre, è stata portata a 15 anni l’età minima per una donna per contrarre matrimonio. Infine, è stato concesso a ogni donna di età superiore ai 18 anni di potersi recare all’estero anche senza autorizzazione. Parlamentari riformisti puntavano a incentivare una stretta collaborazione tra movimenti per la difesa dei diritti delle donne e università, dove le iraniane sono maggioranza.

Tutto questo è stato insabbiato negli anni al potere del radicale Ahmadinejad. Ma anche le promesse di Rohani per maggiori diritti delle donne si sono rivelate inconcludenti. E così questo scenario così fosco sulle libertà individuali mette direttamente in discussione la lenta svolta in atto dal 2013 in Iran con l’elezione del tecnocrate.
Anche la strategia dei moderati di puntare tutto sull’accordo nucleare con il mondo per conquistare maggiore credibilità in politica interna si sta rivelando inefficace. I negoziatori iraniani, in vista della scadenza del 24 novembre, sono sempre più pronti a un compromesso che includa solo una parziale rimozione delle sanzioni internazionali. In cambio l’Iran potrebbe chiedere di mantenere in funzione un maggior numero di centrifughe, rispetto agli accordi precedenti, e livelli più alti di arricchimento dell’uranio. Eppure, dopo il grave caso di Reyhaneh e le restrizioni alle libertà fondamentali in cui vivono le donne iraniane, la vera questione è trovare un equilibrio tra richieste per l’ammissibilità di un programma nucleare a scopo civile e passi avanti nel rispetto dei diritti fondamentali. Uno stralcio del secondo tema nei colloqui in corso potrebbe rivelarsi controproducente, confermare un via libera dei radicali per concessione in politica estera e rafforzare i limiti alle libertà fondamentali in politica interna.