Oggi è giorno di distribuzione di aiuti nel campo profughi di Ahsti di Erbil: le famiglie cristiane e yazidi si mettono in fila per ricevere riso, olio, salsa di pomodoro, latte, ceci. Ad ognuna uno scatolone. Il campo, diviso in due parti, è casa per 6mila persone: i cristiani vengono dalla città irachena di Qaraqosh, gli yazidi da Sinjar e dai villaggi vicini. Vivono in container, con un gas fuori per cucinare e bagni in comune. Rispetto ai campi per siriani ad Erbil e all’estrema povertà degli sfollati iracheni a Kirkuk, Ashti è un fiore all’occhiello: la Chiesa ha fornito l’assistenza e il denaro necessario ad una vita minimamente dignitosa.

Non ci sono tende. Ci sono la scuola, la clinica, alcune chiese e piccoli negozi aperti dagli sfollati per intascare qualche soldo. Ma tra le vie strette del campo la tensione è palpabile. Donne e uomini sorridono, ci invitano a mangiare con loro, ci offrono felafel ancora caldi. Ma a prevalere è il sentimento di divisione che non è solo il futuro, ma anche il presente dell’Iraq.

Lo dicono chiaramente: non torneremo a vivere con musulmani e kurdi. Le divisioni settarie, latenti per decenni, sono riesplose feroci nel post-Saddam imposto dagli Usa. Gli dà voce abuna Jalal Yako, parroco iracheno, oggi responsabile del campo: «Quando la prima bomba è piovuta su Qaraqosh – dice al manifesto – i peshmerga che difendevano la città hanno bussato alle nostre porte dicendoci di scappare. Hanno abbandonato i civili. Siamo fuggiti senza portarci dietro nulla. Ci hanno detto che i nostri vicini musulmani hanno razziato le nostre case».

«Queste famiglie hanno perso tutto e temono possa accadere di nuovo. Non si fidano più: i kurdi fanno affari sugli sfollati, con affitti stratosferici e sfruttando la forza lavoro. L’Iraq è spaccato. Non esiste più l’identità irachena. Ormai ognuno si sente diverso dall’altro: cristiano, yazidi, musulmano, kurdo».

L’Iraq è frammentato, i pezzi non torneranno insieme con facilità. Le politiche occidentali sono riuscite a distruggere il mosaico di etnie e religioni che Saddam teneva insieme. Intanto il mondo parla d’altro: il Consiglio di Sicurezza Onu venerdì ha votato all’unanimità una risoluzione che chiede unità contro l’Isis e autorizza i paesi membri a «prendere tutte le misure necessarie» a combattere gli islamisti nei territori occupati. La risoluzione non indica quali misure né introduce le basi legali ad un intervento, limitandosi a definire «lo Stato Islamico una minaccia globale e senza precedenti a pace e sicurezza» e a chiedere un’intensificazione degli sforzi nel bloccare il finanziamento internazionale al terrorismo.

Resta in un angolo la risoluzione presentata dalla Russia il 30 settembre e di nuovo fatta girare mercoledì, con la quale Mosca domanda l’approvazione Onu ad una campagna militare internazionale contro Daesh: attività militari congiunte insieme al governo di Damasco, condizione che aveva spinto parte del Consiglio di Sicurezza a porre il veto.

Per ora a Parigi basta la benedizione Onu per proseguire con i raid in Siria. Le bombe sono incessanti sia a Raqqa che nel resto del paese, dove a colpire sono le aviazioni di Russia e Damasco: secondo l’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani, ieri a Deir Ezzor sarebbero morte 36 persone in oltre 70 raid russi e siriani, «il peggior bombardamento nel distretto dal 2011» contro villaggi, cittadine e tre giacimenti petroliferi. Un bombardamento tanto intenso da costringere i voli da e verso il Libano a cambiare rotta: Mosca avrebbe chiesto al Ministero dei Trasporti di Beirut di non far utilizzare alle compagnie aeree una certa porzione di spazio aereo nella Siria orientale fino a domani.

Non è dato sapere se tra i 36 morti ci siano dei civili. Erano sicuramente tali le quattro vittime di un raid Usa contro un checkpoint dell’Isis in Iraq, uccise lo scorso marzo. All’amministrazione di Washington sono serviti otto mesi per pubblicare i risultati dell’inchiesta: l’esercito ammette di aver ucciso quattro civili, tra cui un bambino, ma dichiara l’azione legale perché «i checkpoint dell’Isis sono target legittimi». Insomma, un danno collaterale come tanti, la stragrande maggioranza dei quali non meritano neppure un’indagine.

La Casa Bianca ha spesso fatto vanto del basso numero di civili morti tra Siria e Iraq nell’ultimo anno. I target si trovano spesso in zone desertiche, i luoghi dove Daesh gestisce strategia militare e attività economiche. Anche le vittime tra gli islamisti non sono poi molte. Neppure a Raqqa, nel mirino dei caccia francesi e russi da una settimana.

Muoiono i civili: ieri l’Isis ha rivendicato i 10 morti nell’attacco di venerdì contro una moschea sciita a Baghdad, a cui ne sono seguiti ieri altri 8. Una violenza che è la quotidianità nella capitale e che getta benzina sul fuoco dei settarismi interni. Il campo di Ashti sembra lontanissimo, ma le voci degli sfollati raccontano del possibile futuro comune: «La gente è distrutta, privata della propria dignità – dice abuna Jalal mentre una donna gli offre un tè – Vogliono lasciare l’Iraq, non è più il loro paese».

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