Perchè scegliere di vivere nell’estrema periferia d’Europa? Il Portogallo sembra riuscire a nascondersi nella sua striscia di terra stagliata ad ovest sull’Oceano. Cosa accada laggiù, da quelle parti, lo sanno in pochi. Eppure Lisbona, che pur non sembra avere molto in comune con le altre capitali d’Europa, sta diventando sempre di più un approdo nella mappa delle migrazioni intra-europee. Molti sono gli italiani che popolano la capitale portoghese: Lisbon Storie – Storie di italiani a Lisbona parla di loro. (Il documentario si trova su Produzioni dal Basso).

Presentato al Festival del Cinema italiano di Lisboa, Lisbon Storie è un documentario indipendente, realizzato dai tre giovani italiani, Luca Onesti (fotografo), Massimiliano Rossi insegnante di italiano per portoghesi e traduttore) e Daniele Coltrinari (giornalista freelance). La domanda che guida i realizzatori è chiara: cosa spinge tanti italiani a trasferirsi in un paese in crisi come il Portogallo? Le contraddizioni insite nella complessità della risposta si mostrano già in apertura del documentario: alle classiche, bellissime e nostalgiche vedute di Lisbona dall’alto (che da sole potrebbero rappresentare una valida risposta) si sostituiscono improvvisamente le immagini dei violenti scontri avvenuti proprio davanti al Parlamento, tra il movimento anti-austerity e la polizia portoghese nel novembre 2012.

Le immagini fragorose risalgono agli anni di governo Passos Coelho, uno dei più servizievoli alleati della Troika, le cui politiche d’austerity hanno lasciato un segno spietato sul Portogallo. Molti, moltissimi, tra i giovani portoghesi che in quei giorni scesero in piazza sono emigrati verso nuovi e più redditizi lidi. Si tratta probabilmente delle stesse mete scelte dai moltissimi giovani italiani « in fuga »: Londra, Parigi,Berlino, Bruxelles. Molti italiani hanno però scelto di trasferirsi a Lisbona. La loro storia è quasi una contronarrazione rispetto alla retorica sulla fuga dei cervelli. E non perché il documentario non racconti anche la storia di « cervelli » migrati in Portogallo, ma perché il filo rosso che sembra legare i racconti dei molti intervistati non sembra essere semplicemente «il lavoro». Chi ha cercato lavoro in Portogallo sa, infatti, che la strada più semplice che ci si ritrova davanti è il lungo tunnel dei call-center. Trovare lavoro in un call-center è semplicissimo, la parte difficile, come dice una delle intervistate, è «uscirne». E gli italiani che vi lavorano sono tantissimi.

Tra questi c’è anche chi, dopo aver vissuto diverso tempo a Lisbona, insoddisfatto delle condizioni di vita precarie che un lavoro in un call center riserva, decide di migrare in Belgio ed effettivamente si ritrova «in una condizione lavorativa nettamente migliore della precedente ma con un’incredibile saudade di Lisbona». Lavoro più qualificato, pagato meglio, ma Lisbona manca e la qualità della vita non sembra potersi misurare solo sulla base della qualità del lavoro. Oltre l’odissea dei call-center c’è anche chi se la cava meglio: dall’università, alla ristorazione, alla musica, allo spettacolo, le storie degli italiani a Lisbona hanno tante facce, più o meno precarie, più o meno stabili, più o meno «di successo». Ma l’elemento comune delle loro narrazioni sembra essere, in fondo, la vita intensa ma calma di una città in cui «c’è un cielo immenso che si vede in ogni momento», come ricorda uno degli intervistati, trasferitosi a Lisbona dopo aver lasciato i portici bolognesi.

La domanda, tuttavia, rimane: si sopporta forse meglio la precarietà di un call center se si è immersi nella bellezza di Lisbona? Certo, rientra nello stereotipo della città (e come ogni stereotipo dice solo in parte il vero) l’idea che si tratti di un luogo in cui la vita scorre più lenta, più serena, in cui la crisi si percepisca ma si affronti con placido coraggio, ripiegando sulla bellezza del mare, dei vicoli di Alfama, sul pesce a poco e sul fado cantato agli angoli di strada.

La verità è che Lisbona è in piena trasformazione e che dal mare al Fado niente ormai è immune dall’immenso processo di vetrinizzazione turistica. Ciò nonostante la città sembra resistere e mantenersi un crocevia aperto per le tante forme di migrazione che la attraversano. Ciò che pare contare più di tutto è la qualità della vita che offre una città in cui nessuno sembra sentirsi straniero, una città in cui le vite migranti (non solo italiane) sembrano essere la vera anima, aperta e ibrida, del luogo. Lasciato da parte ogni sguardo lineare, chiusi i libri che dividono periferie e centri in base al loro grado di « sviluppo », e rinunciando all’idea che gli unici luoghi vivi d’Europa siano umanamente invivibili, Lisbona si spiega forse come un rifugio « il migliore dei rifugi possibili», come dice uno degli intervistati.

Se la domanda di partenza del documentario rimane quindi aperta, la ragione è, forse, che nonostante il tanto inchiostro speso a interpretare il fenomeno dell’esodo giovanile dall’italia in termini di « fuga dei cervelli », la realtà è più complessa. Le migrazioni non si spiegano tutte allo stesso modo ed è sintomatico che, a differenza di molti « tipici » discorsi da « italiani all’estero », quasi nessuno degli intervistati paia avere un sentimento di rancore o di rifiuto rispetto all’Italia che ha lasciato. Chi sceglie di vivere a Lisbona sta forse segnando una mappa diversa all’interno delle migrazioni intra-europee, rifiutando l’idea che si fugga sempre da Sud a Nord e sempre e solo per un sogno un po’ «americano» di successo.