I. Lisifobia: O Ornitologo (Joao Pedro Rodrigues, 2016)

Hotel del Ritorno alla Natura, la non meglio identificata riserva situata nel nord del Portogallo e raggiunta dallo studioso Fernando per esercitare un birdwatching dalle conseguenze imprevedibili (nello specifico la ricerca delle cicogne nere, a bordo di un kayak destinato alla distruzione lungo una serie di rapide) riflette la sua indifferenza millenaria di luogo statico in una condizione di paura della paura necessaria alla trasformazione del solitario essere umano che la abita “provvisoriamente” in individuo toccato dalla santità, corpo vivente percorso dalla felicità spirituale a seguito di una sequela di prove di fede incarnate da una rappresentazione della sofferenza molto distante dal clichè della via crucis e delle sue meccaniche stazioni personally trained (laiche o cattoliche che siano), ciò che costituisce il fascino – singolare quanto fobico, spiazzante quanto coerente – di O Ornitologo di Joao Pedro Rodrigues (2016), il più compulsivo e obliquo, sinuosamente pop tra i visionari portoghesi d’oggi, giustamente premiato a Locarno quest’estate.
Il terrore di lasciare (troppo) in sospeso le domande sulla propria identità velocizzano a un certo punto la predisposizione contemplativa dell’uomo (che osserva gli uccelli e ne è guardato, da grandangolari soggettive) verso una sempre più vertiginosa rapsodia di incontri dalla realtà ingannevole, per cominciare da un’enigmatica coppia di ragazze cinesi disperse durante il cammino di Santiago e indecise tra ingenuità e abiezione, golose di bondage e volontà di castrazione, e poi continuare con l’ancor più incredibile messinscena di una pastorale erotica in riva al fiume in compagnia di un giovanissimo sordomuto convenientemente di nome Jesus (che si abbevera di latte direttamente dalle mammelle dei suoi animali), passando per i baccanali notturni in piena foresta del rito dei caretos fino ad una caccia (all’uomo?) condotta da severe amazzoni a seno nudo, una situazione quest’ultima che non tanto al film di Terence Young del 1973 rimanda quanto alla distopica perla letteraria di Sarban, Il richiamo del corno…
Quel che appare proseguire come un surreale e squilibrato schedule esistenziale, tra natura e sogno di essa, rivela d’improvviso l’esatta esposizione di una architettura compiuta: spiavamo le sofferenze dell’ornitologo Fernando, senza accorgerci di avere assistito invece alla trascendente, mirabolante biografia di Antonio da Padova (Antonio da Lisbona, 1195-1231), ovvero Fernando Martins de Bulhoes, il santo che non conobbe la disperazione (che era ed è di tutti gli altri) di subire la separazione tra voluto e vissuto, con Rodrigues (ossessionato da sempre da questa figura religiosa) a comporgli devotamente un ritratto mistico/dada (un processo sulla scia dell’abissale percorso interiore di Hugo Ball) destinato a concludersi nell’eccitazione della canzonetta extravagante (Cancao do Engate, di Antonio Variacoes, cantautore portoghese morto di AIDS nel 1984), score ideale per incamminarsi – liberatisi della paura di lasciare le cose in sospeso – e giungere alle soglie del comune di Padova.

*Questa rubrichetta è amorosamente dedicata al più brutto film di John Huston