Ha continuato a salire per tutto il giorno il bilancio delle vittime dell’attentato dello Stato Islamico ad Aden, città costiera del sud dello Yemen. Quello finale è di 71 morti e 98 feriti. Ad ucciderli un’auto piena di esplosivo lanciata contro un centro di reclutamento del governo ufficiale che di Aden ha fatto la sua “capitale” provvisoria dopo essere stato cacciato da Sana’a a settembre del 2014 dai ribelli Houthi.

Secondo testimoni, alcune reclute hanno perso la vita quando il tetto dell’edificio è crollato dopo l’esplosione dell’autobomba. Reclute che sarebbero state parte del “contingente” di 5mila uomini che l’Arabia Saudita sta assoldando in questi giorni nel sud dello Yemen per inviarli al confine nord, a protezione della propria frontiera, molto spesso oggetto di attacchi degli Houthi.

L’Isis ha rivendicato l’azione sulla propria agenzia stampa, Amaq, l’attacco più cruento compiuto dal “califfato” nel paese. Da tempo, usando come piede di porco l’instabilità e la guerra lanciata da Riyadh a marzo 2015, l’Isis si è fatto strada sfidando apertamente al Qaeda nella Penisola Arabica, la più potente filiale della rete di al-Zawahiri. Se i qaedisti controllano porzioni delle province orientali, lo Stato Islamico usa i tradizionali metodi di avanzamento: le stragi.

E Aden è tra le città più colpite: l’ultimo attacco è del 20 luglio, 4 poliziotti uccisi; quello precedente risale a maggio, un doppio attentato kamikaze che fece 41 vittime. L’Isis è a suo agio in un paese devastato dalla guerra, dove lo Stato non esiste più e la guerra civile si è presto rivelata un conflitto regionale.

Il popolo yemenita è allo stremo, costretto a piangere 10mila morti e a tentare di sopravvivere tra mancanza d’acqua e scarsità di cibo. Ieri per la seconda volta in dieci giorni Sana’a ha protestato contro l’operazione saudita: dopo il milione di persone che hanno affollato piazza Tahrir il 20 agosto, ieri in centinaia si sono ritrovati di fronte alla sede delle Nazioni Unite per chiedere la fine dell’attacco, portando con sé le foto di familiari uccisi dalle bombe saudite.

Ma sul piano diplomatico gli sforzi Onu sono stati sempre tutti affossati: a metà luglio è collassato l’ultimo tentativo di negoziato in Kuwait. Ora ci riprova il segretario di Stato Usa Kerry che lo scorso fine settimana, in uno dei suoi innumerevoli (ma sempre poco fruttuosi) viaggi in Medio Oriente, ha proposto una nuova road map per lo Yemen: un governo di unità nazionale che includa anche il movimento Houthi.

Esattamente quello che i ribelli chiedono da anni. Kerry ne ha discusso in Arabia Saudita con i vertici della petromonarchia, attore però poco credibile visto che solo poche settimane fa il suo Dipartimento di Stato ha approvato la vendita di 1,15 miliardi di dollari in armi a Riyadh (che si aggiungono al ricco rapporto commerciale tra i due, con Washington che ha venduto all’alleato 110 miliardi in armamenti tra il 2010 e il 2015).

Ieri è giunta la risposta del governo ufficiale, l’alleato-marionetta di Riyadh: pronti a sostenere il piano statunitense, hanno detto i suoi rappresentanti diplomatici. Insomma, pronti a sostenere un piano che da un anno e mezzo continuano a rifiutare. Positiva anche la reazione degli Houthi che da Sana’a si dicono ben felici di partecipare a qualsiasi soluzione ponga fine «al conflitto, all’aggressione saudita e all’assedio».