Una gabbia in una zona desertica, il pilota giordano Moath al-Kasasbeh con indosso la divisa arancione nello stile Guantanamo, la benzina sparsa a terra e il fuoco acceso da lontano da un miliziano. Le fiamme invadono in pochi minuti la sua prigione. Così è morto il 26enne per cui Amman aveva accettato di scendere a patti con il califfato, bruciato vivo. Inutile il dialogo aperto dalla monarchia hashemita, soprattutto dopo quanto riportato ieri dal portavoce dell’esercito giordano su Jordan Tv: il giovane sarebbe stato giustiziato un mese fa, il 3 gennaio.

Dopo giorni di silenzio è lo Stato Islamico a dare notizie del pilota, con un video di 22 minuti che ne mostra la morte, pubblicato nel sito del califfato, al Furqan. La Giordania si era detta pronta fin da subito a realizzare lo scambio di prigionieri richiesto la settimana scorsa dagli stessi miliziani: al-Kasasbeh e il giornalista giapponese Goto in cambio della qaedista Sajida al-Rishawi, in carcere ad Amman dal 2005. Il governo giordano aveva aperto il negoziato e chiesto la prova che al-Kasasbeh fosse ancora in vita prima di rilasciare al confine con la Turchia la donna. Dall’Isis non è giunta risposta, al-Kasasbeh era probabilmente già morto. Silenzio fino a ieri, quando account vicini al califfato hanno rilanciato centinaia di volte la notizia sui social network.

Il governo ha confermato l’autenticità del video e ieri sera il portavoce al-Momani ha promesso una reazione «dura e forte», senza entrare nei dettagli. Il parlamentare al-Nemri ha parlato, però, della probabile esecuzione della condanna a morte che da 10 anni pesa sulla qaedista: secondo quanto riportato da Sky News Arabia e Al Arabiya, al-Rishawi e altri 4 membri dell’Isis sono stati trasferiti in un’altra prigione per essere giustiziati, come rappresaglia per la morte di al-Kasasbeh. Il pilota era stato catturato a dicembre a Raqqa, «capitale» del califfato, dopo la caduta del jet F16 a bordo del quale sorvolava la Siria, nell’ambito delle operazioni anti-Isis della coalizione guidata dagli Usa.

E proprio la partecipazione della Giordania alla lotta al terrorismo è finita, in questi giorni di attesa e dolore, nel mirino dell’opinione pubblica interna che da più parti accusa re Abdallah di aver trascinato il paese in una guerra che non le appartiene. Non sono pochi coloro che ritengono la famiglia reale la responsabile indiretta della sorte del giovane pilota: tra loro, alcuni potenti leader tribali sulla cui fedeltà la monarchia hashemita fonda la tradizionale stabilità interna. Un equilibro ora messo in serio pericolo dalla morte di al-Kasasbeh, membro di un’autorevole tribù sunnita.

Per evitare un terremoto in un paese uscito indenne dalle cosiddette primavere arabe, nonostante l’assenza totale di riforme interne, re Abdallah dovrà prendere decisioni immediate. Nei giorni scorsi aveva negato l’intenzione di uscire dalla coalizione anti-Isis per salvaguardare i rapporti con l’alleato statunitense. A dargli man forte la decisione resa nota ieri dall’Unione Europea che girerà alla monarchia hashemita 47,5 milioni di dollari a favore del programma di riforme finanziarie e amministrative, volto a incrementare il livello di trasparenza delle istituzioni pubbliche.

Per il califfo al-Baghdadi una vittoria su tutta la linea: seppure la al-Rishawi non sia stata liberata, l’Isis ha indebolito (costringendolo al negoziato) un paese strategico per la coalizione, una delle nazioni più fertili in termini di numero di adepti del califfato. Che ora potrebbero ulteriormente aumentare ed espandere i confini dello Stato Islamico. Lo ha spiegato bene il generale Stewart, direttore della Defence Intelligence Agency statunitense: «Con affiliati in Algeria, Egitto, Libia, il gruppo sta cominciando ad avere una crescente presenza internazionale che include sia le aree governate [in Siria e Iraq], sia quelle non governate».