«Lo Stato Islamico sta rapidamente perdendo il suo territorio e le sue rispettive capitali (Raqqa e Mosul) fino ad un processo di disintegrazione ormai vicino». Con queste parole Jason Burke, corrispondente del quotidiano inglese The Guardian e autore di un celebre libro su Daesh, descrive l’attuale situazione in Iraq e Siria, a seguito delle diverse controffensive messe in piedi da diversi attori statali e non.

E così una delle principali preoccupazioni dei servizi di intelligence europei – soprattutto a seguito dei più recenti attentati in Europa e Turchia – è diventata sicuramente «il rientro dei foreign fighters», ma anche «quello dei bambini-soldato di Daesh», minori arruolati forzatamente o con la benedizione dei loro genitori jihadisti. Diverse procure europee riportano di numerose famiglie che prendono contatto con le rispettive ambasciate per far tornare principalmente donne e bambini in Occidente.

L’ultimo rapporto dell’Unicef, pubblicato nel 2016 con il titolo «No place for Children», denuncia come l’arruolamento dei bambini nelle principali aree di guerra (Medio Oriente e Africa) avviene già dai sei anni, coinvolge diverse migliaia di minori ed è purtroppo una costante degli ultimi conflitti armati: dalla Sierra Leone fino ai territori controllati dallo Stato Islamico nel mondo arabo.

Questi bambini ricevono un addestramento militare, un indottrinamento ideologico o religioso e partecipano attivamente ai combattimenti. Secondo i dati forniti dall’Interpol, ci sono oltre duemila minori arruolati nei territori occupati dal sedicente califfato: due terzi sono partiti con i loro genitori e circa un terzo è composto da bambini nati in Iraq o in Siria. Sono oltre 400 quelli francesi e belgi, mentre quelli italiani sono circa una decina.

L’arruolamento dei bambini-soldato nei territori di Daesh è, purtroppo, diventato una prassi ormai strutturata. Creata con un duplice obiettivo: far nascere una nuova generazione di jihadisti e promuovere, a fini propagandistici, fin dalla più giovane età la corretta applicazione della via “salafita”, che aspira alla restaurazione delle condizioni di vita all’epoca dei “pii antenati”, richiamo all’ortodossia basata sui precetti dell’Islam dettati dal profeta Maometto.

Mostrando i «giovani leoni del califfato», l’organizzazione jihadista vuole dimostrare la sua capacità nell’accogliere e nel formare i suoi “figli” sia da un punto di vista religioso che militare. Dalla sua nascita e durante la sua veloce ascesa, la propaganda jihadista ha puntato sull’utilizzo dei bambini-soldato per mostrare ai paesi occidentali la loro totale devozione alla causa jihadista. Un esempio eclatante di questa forma estrema di propaganda sono i numerosi video sul web che mostrano le esecuzioni di prigionieri compiute da adolescenti o addirittura da bambini.

Daesh ha riposto una particolare attenzione al proprio sistema educativo per questi baby-kamikaze. Nel 2013 l’equivalente del Ministero dell’Istruzione dello Stato Islamico ha lanciato un video nel quale riportava il proprio singolare programma didattico, i propri testi scolastici e l’originale ciclo di studi dalla scuola primaria fino al liceo.

Risulta fondamentale nella propaganda di Daesh lo studio del Corano e la conoscenza dell’arabo classico come lingua comune per unire giovani di diversa provenienza: europei, asiatici e caucasici. Alcuni reportage, invece, evidenziano come lo studio di materie classiche, la matematica ad esempio, venga veicolato sempre con un messaggio di perenne conflitto armato: gli esercizi di aritmetica delle primarie riportano sempre il conteggio di missili o pallottole.

Parallelamente allo studio i «giovani leoni del califfato» seguono un duro addestramento militare per «rinforzare il fisico». Tutti i bambini, di qualsiasi età, si devono alzare presto, devono seguire i precetti coranici, vengono sottoposti alla resistenza al dolore e si specializzano nell’utilizzo di armi, bombe, fucili di precisione e cinture esplosive.

L’addestramento si conclude con la “prova finale” che deve dimostrare la loro totale abnegazione allo Stato Islamico. L’annullamento della volontà dei bambini viene “verificato” sul campo con l’esecuzione di un prigioniero oppure compiendo un attentato suicida in battaglia. Nelle ultime settimane sono, purtroppo, sempre più numerosi gli attentati kamikaze eseguiti dai bambini nella battaglia di Mosul.

Le testimonianze raccolte da alcuni bambini yazidi rapiti dallo Stato Islamico nella zona del Sinjar e liberati in questi mesi definiscono il quadro: un simile addestramento li faceva sentire «figli e fratelli di un’unica famiglia: quella di Daesh», a tal punto da far affermare loro di «non sentire nessun dolore o nessun rimorso per le violenze compiute».

La “formazione” di questi bambini ed il loro rientro solleva un concreto problema nella nostra società, «non risolvibile come spesso avviene con un semplice aumento delle misure di sicurezza», dichiarano Noman Benotman e Nikita Malik, gli autori di un report di studio sul recupero dei bambini dello Stato Islamico («The Children of Islamic State», Quilliam Foundation 2016) visto che «la loro emarginazione può farli diventare delle vere e proprie bombe a scoppio ritardato».

La “deradicalizzazione” di questa nuova generazione jihadista deve, invece, «essere affrontata attraverso il sostegno psicologico unito ad una efficace presa in carico da parte della società in modo da diventare un reale processo di inclusione e di recupero dei bambini».