La guerra all’Isis diventa ogni giorno di più terreno di confronto tra i regimi regionali. Sebbene il nemico stavolta sia comune, non c’è governo che non tenti di sfruttare la propria partecipazione al conflitto con il terrore. Lo fa Teheran che rafforza la propria influenza su Baghdad; lo fa Ankara che camminando sul filo che separa l’intervento dall’immobilismo punta a indebolire sia il nemico siriano Assad che quello kurdo, il Pkk. E lo fa anche Damasco per salvare il presidente dal vortice della guerra civile e dell’isolamento internazionale.

Ieri il premier iracheno al-Abadi è volato per la prima volta a Teheran dove ha incontrato il presidente Rowhani. Un meeting giunto a poche ore dalle bombe esplose nella città sacra sciita di Karbala, insieme a Najaf, considerata dall’Iran la linea rossa invalicabile dall’Isis. Con la caduta di Saddam Hussein e l’avvento di governi a maggioranza sciita, l’influenza iraniana è aumentata, legando l’Iraq all’asse Damasco-Teheran-Hezbollah (a lungo Baghdad è stato l’unico paese ad opporsi dentro la Lega Araba alle sanzioni al presidente Assad).

Ieri Rowhani ha ribadito il supporto a Baghdad, ad oggi espresso indirettamente sotto forma di aiuti militari ai peshmerga e direttamente con l’invio dell’unità di élite delle Guardie Rivoluzionarie a coordinare le attività dell’esercito governativo. Il presidente ha promesso nuovo sostegno alle truppe irachene, ovvero altre armi e consiglieri militari.

Continua a muoversi, in maniera controversa, la Turchia. Dopo aver evitato qualsiasi coinvolgimento nella battaglia di Kobane, Ankara – su pressione Usa – ha optato per un intervento minimo, aiutando i peshmerga, i kurdi iracheni, ad attraversare la frontiera per combattere a fianco dei kurdi siriani.

Seppure fino a ieri nessuno a Kobane li avesse ancora visti arrivare, dalla partecipazione dei kurdi iracheni Ankara potrebbe ottenere quanto cerca: una marginalizzazione del Pkk, presente da un mese a Kobane, e l’avvicinamento delle Ypg (le milizie kurde siriane) agli Stati uniti e alla coalizione che domenica hanno inviato per la prima volta aiuti militari su Kobane. Non tutti sono arrivati a destinazione: secondo l’esercito Usa, una parte delle armi sono state bombardate perché lanciate troppo vicine ad una postazione dello Stato Islamico.

«Stiamo valutando il completamento della missione – ha detto un funzionario Usa – La maggior parte dei pacchi sono stati consegnati con successo alle forze kurde». Per questo alcune sono state distrutte, per evitare che cadessero in mano jihadista, dice il Pentagono, giustificandosi con il buio: gli armamenti sono stati sganciati di notte rendendo più difficile centrare il bersaglio. Diversa la versione dell’Isis: ieri in un video pubblicato in rete, lo Stato Islamico si è fatto beffe degli Stati uniti affermando di essere entrato in possesso delle armi lanciate per errore sulle proprie postazioni.

Nonostante gli sforzi, l’Isis non barcolla. In Iraq lo Stato Islamico ha ripreso l’assedio del monte Sinjar, circondato ad agosto. Sarebbero ancora 2mila gli yazidi intrappolati, 700 famiglie, ormai prive di armi per difendersi. Due i villaggi occupati nei giorni scorsi dalle milizie di al-Baghdadi. All’inizio di agosto l’assedio e il massacro della minoranza irachena fu la giustificazione ai primi raid «umanitari» del presidente Obama.

Sotto attacco anche il Kurdistan iracheno, dopo qualche settimana di tregua. Ieri i miliziani islamisti hanno lanciato 15 attacchi simultanei contro le forze kurde a nord dell’Iraq e contro i peshmerga a difesa della strategica diga di Mosul. Sotto pressione anche il centro del paese dove ieri è registrata l’ennesima ondata di attacchi terroristici: a Baghdad colpiti i quartieri sciiti di Abu Dashir, Madian e Talibiya, 30 morti.

Sul fronte siriano, all’assedio di Kobane – che non cessa nonostante i kurdi controllino il 70% della città – si aggiungono nuove offensive nella provincia di Deir-al-Zor dove ieri, per la prima volta in due mesi, lo Stato Islamico ha strappato territori al controllo di Damasco: l’Isis ha occupato la zona industriale della città di Deir al-Zor, oltre la metà della comunità.

Un Medio Oriente nel caos e la sorte delle minoranze cristiane preoccupano anche il Vaticano che ieri ha annunciato la meta del prossimo viaggio di papa Francesco: il pontefice sarà in Turchia a fine novembre per una tre giorni dedicata a incontri istituzionali e a portare solidarietà ai profughi siriani e iracheni.