L’ultimo, struggente, libro di Tar Ben Jelloun (Il matrimonio di piacere, La Nave di Teseo) fa riemergere un’immagine sopita del cosiddetto Oriente, la stessa che ci portiamo dentro dalla lettura delle Mille e una Notte, meraviglioso catalogo di avventure erotiche dove è assai più facile che un personaggio muoia come martire dell’amore piuttosto che in un attentato suicida. È un’immagine che, con Said, si potrebbe dire ammalata di «orientalismo», frutto cioè della percezione europea dell’Oriente, di una «visione dell’Oriente senza l’originale», scaturita da un bisogno, che è il contraltare coloniale, di inseguire il proprio rimosso proiettandolo in un mondo esotico più libero, più permissivo e sensuale.

Passeggiando per le strade di Marrakech, inseguendo le voci che ancora si affollano nelle taverne del sottoproletariato di Damasco o nei caffè dei ricchi sfaccendati del Cairo, fra i quassas e meddah dei libri di Mafhuz e di Canetti, si può però pensare che questa immagine sia reale. Qui si ascoltano ancora storie arabe di truffe e di crimini, di una comicità da trivio, di un erotismo esplicito e disinvolto, ma anche storie d’amore delicato e intenso, cariche di magia, di dolce trasognamento, di speranze tradite e possibilità di destino, frutto di una coscienza più tollerante, pluralista ed ottimista, portatrice di un Islam assai diverso dall’Islam cupo delle cronache quotidiane con i suoi lugubri riti di morte.

Protagoniste assai spesso sono le donne, per quella capacità negativa tutta femminile di provocare fitna, un caos di natura sessuale misto alla sedizione e all’anarchia. Donne che l’arabo maschio che si crede teneramente amato e invece viene ingannato e umiliato, non esita a uccidere o a imprigionare, per vendicare l’onore (a-charaf), per assicurare la purezza del nasab, il principio di discendenza per via patrilineare e agnatica che è il fulcro di quella società patriarcale, e anche per esorcizzare la paura di non essere sessualmente adeguato, come ipotizza Benslama (La psychanalise à l’epreuve de l’Islam).

Donne che però anche quando sono confinate, sono maestre d’amore, come un tempo lo fu la giovane Sharazàd, la «liberatrice», l’eroina che, in una precoce primavera pre-musulmana, salvò tutto il suo popolo usando l’arte del Samar (la capacità di narrare) per combattere la morte e un potere fondato sul terrore. Lei, giovanissima, non aveva passato il tempo nelle discoteche ma nelle biblioteche, studiando i classici della letteratura araba, persiana, indiana, oltre alle mille e mille storie popolari; aveva lì imparato, ricordandolo all’assassino-sposo, che la civiltà araba di cui era Sultano, era stata forgiata non nella violenza ma nella sapienza d’amore. Lo aveva scritto, del resto, nel XIII secolo, anche il grande filosofo Ibn’ Arabi (L’interprete degli ardenti desideri), e lo aveva ribadito, un secolo dopo, il grande poeta Ibn Qayyim Al Zawjiya ne Il giardino degli amanti, un classico della letteratura in cui si declinano più di sessanta modi della lingua araba per dire ti amo.

Forte più della morte, inseparabile dall’erotismo – ovvero dal sesso immaginato, aspettato, differito, raccontato, oltre che agito tramite l’arte di eccitare pianificando il maglis, il piacere – l’amore rimane importante anche nella civiltà musulmana, venerato dalla religione. Come sostiene Abdelwahab Bouhdiba (La sessualità nell’Islam), l’erotismo arabo viene rafforzato dallo stesso Corano che ritiene la sessualità umana una «dotazione» originaria data all’uomo dal Dio, nonché uno dei segni attraverso cui si riconosce la potenza divina di creazione e di rigenerazione. Grazie all’amore l’uomo è estasiato (intilaq) e si mette sulla stessa lunghezza d’onda del cosmo, ristabilendo l’armonia.

L’amore abita perciò da protagonista il Paradiso (Janna): luogo assai diverso dall’asessuato Paradiso cristiano, luogo di piacere sessuale infinito, dove ogni credente maschio potrà avere per sé esseri femminili bellissimi dal profumo di zenzero che lo ricompenseranno con una esperienza di orgasmo infinito e prolungato; e dove verrà ricostituita ogni comunità matrimoniale dell’amante e dell’amato in quanto anche le coppie formatesi sulla terra si ritroveranno e, giovani e abbellite, faranno l’amore come sulla terra, ma con ogni piacere centuplicato. Nessuno dovrà sopportare il celibato che regna nell’Inferno (Ghenna), che è solitudine, non-presenza nei confronti del prossimo, mancanza di sesso, di sensi, vuoto d’amore.

Perciò il Paradiso arabo vive e risplende nel quotidiano, come una specie di «banca dati» dell’immaginario, fornendo fondamento teologico al rinnovamento del desiderio e alla creatività. Se il bacio, il profumo, le frasi sussurate, i giochi preliminari (mula’aha) sono fortemente raccomandati dal Profeta, se Egli più volte ha ribadito che è un bene «assaggiare il miele dell’altro», vuol dire che l’amore fisico deve essere praticato e che bisogna legarlo non solo alla procreazione, ma alla fantasia, all’avventura, alla libertà, a una conoscenza e spiritualità estetica raffinata.

Erotiche sono dunque le visite settimanali all’hammam, preannuncio del godimento. Erotica è la cucina araba. Erotici sono i vestiti, le tuniche e i veli, e, soprattutto, erotica è la voce, perché non è concepibile un amplesso silenzioso e furtivo: l’amore non può essere silenzioso in quanto è la voce che veicola la tenerezza (reqqa) ed esprime sentimenti reciproci, facendo in modo che il desiderio possa essere condiviso e l’altro possa essere ospitato.