Presidente dell’Istituto di ricerche e studi sul mondo arabo e musulmano dell’Università di Marsiglia e politologo del Cnrs di Parigi, Vincent Geisser è uno dei massimi conoscitori dell’Islam francese, cui ha dedicato numerosi studi, tra cui, Ethnicité républicaine, La Nouvelle islamophobie e Marianne & Allah.

Con 6 milioni di fedeli, la Francia è uno dei paesi europei dove la presenza musulmana è più forte. Quale è stato l’effetto della strage di Parigi su questa vasta comunità?
Bisogna fare una premessa necessaria: i terroristi hanno scelto di colpire la Francia perché sperano che le loro azioni favoriscano un ulteriore sviluppo dell’islamofobia, una stigmatizzazione dell’intera comunità musulmana che gli aiuti nell’opera di reclutamento. Detto questo, all’interno della comunità molto diversificata dei francesi di fede islamica, visto che vi convivono molti modi diversi di praticare la fede, mi sembra si possano cogliere due conseguenze immediate di quanto accaduto. Da un lato emerge la sensazione di sentirsi degli “osservati speciali», guardati con sospetto e, talvolta, assimilati tout cuort a degli jihadisti. Dall’altro, con il passare dei giorni sta però crescendo anche una mobilitazione per molti versi inedita: di fronte a quegli atti sanguinari è come se si stesse assistendo ad una sorta di rivolta morale proprio di quanti non accettano che i loro sentimenti religiosi siano così barbaramente associati alla violenza. I rappresentanti di associazioni, moschee, centri culturali stanno prendendo la parola in questi giorni per affermare il loro disgusto per il terrorismo proprio in quanto musulmani. A questo si aggiunge una forte rivendicazione di appartenenza alla Francia, ai suoi valori, perfino ai suoi simboli, a cominciare della bandiera. È qualcosa che si rende particolarmente visibile sui social network dove in molti hanno subito messo il tricolore sul loro profilo Facebook. In questi termini e in queste proporzioni mi sembra un fenomeno del tutto nuovo.

Dopo l’attacco a Charlie Hebdo e al supermercato kasher non si era visto nulla di simile. Lo Stato islamico ha forse commesso un errore nella sua strategia?
Sembra proprio di sì. Questa volta l’orrore allo stato puro si è imposto su qualunque esitazione o timidezza nella reazione. Molti musulmani avevano comunque condannato anche le stragi di gennaio, ma è certo che Charlie Hebdo era un simbolo controverso, divisivo, con cui molti fedeli faticavano a riconoscersi. Ora è diverso, tutti sono stati colpiti, tutti sono ugualmente vittime e il bagno di sangue ha cui si è assistito ha prodotto una presa di coscienza collettiva, non ci sono state le manifestazioni di massa di allora, ma nessuno può più pensare che quanto accaduto non lo riguardi. Oggi i musulmani sono in prima linea contro il terrorismo.

Le biografie degli attentatori di Parigi, come già successo in passato, ci dicono che però anche i terroristi rivendicano la propria matrice islamica: che ruolo gioca la religione nel loro percorso?
Malgrado sia in nome della fede che dichiarano di passare all’azione, in realtà è la fascinazione per la violenza che sembra muoverli davvero. Dei militari francesi impiegati in Afghanistan mi spiegavano che secondo loro la vera religione di questi giovani europei che un tempo partivano per partecipare alla jihad a Kabul e oggi fanno lo stesso in Siria, non è l’Islam, ma la violenza. In alcuni casi si tratta di piccoli delinquenti che ad un certo punto vestono i panni dei «combattenti della fede», in altri di giovani incensurati ma in cui è forte e preponderante il desiderio di affermare se stessi attraverso il ricorso a dei metodi violenti. In questo senso, la loro alfabetizzazione religiosa è spesso molto superficiale e dopo un breve passaggio per le moschee o i centri culturali musulmani, si svolge prevalentemente a casa, attraverso la rete, o in piccoli gruppi che si riuniscono privatamente. Molti Imam dicono che la vera radicalizzazione non avviene mentre quei giovani frequentano ancora le moschee, ma quando smettono di andarci e iniziano a cercare messaggi più aggressivi: quello è il momento in cui si deve iniziare a preoccuparsi. E in cui entrano in gioco i reclutatori dei gruppi terroristi. Alla fine di questo percorso si sceglie di andare a combattere in Siria non solo per difendere il sedicente Stato islamico, ma anche per vivere un’avventura, per provare il brivido seducente del combattimento.

La strage di Parigi avviene a dieci anni esatti dalla grande rivolta delle banlieue: la deriva sanguinaria dei giovani jihadisti è anche frutto della sconfitta di quella stagione?
È’ difficile stabilire un qualche parallelo tra spinte che puntavano alla trasformazione della società e quelle che inseguono invece la sua completa distruzione. Nel 2005 i giovani delle banlieue bruciavano le macchine per farsi sentire, non certo le persone. Piuttosto, accanto all’indagine sulla radicalizzazione in termini religiosi di una fetta dei giovani delle classi popolari europee, bisognerebbe cominciare ad indagare il ruolo che forme di violenza sempre più distruttiva hanno assunto nei loro processi di socializzazione. Da questo punto di vista, non mi convincono le tesi sociologiche che attribuiscono all’islamismo radicale la patente di ideologia, per quanto disperata, degli “ultimi”. Qui è piuttosto con dei percorsi di autodistruzione che abbiamo a che fare.

–> Read the English version of this interview at il manifesto global