Ogni identità è una tessitura di storie. E ogni storia dimenticata, perché le sia resa giustizia, chiede l’esercizio limpido e generoso dell’attenzione. È la limpidezza la sensazione dominante quando si entra in Luminusa di Franca Cavagnoli (Frassinelli, pp. 158, euro 18,50): limpidezza della luce di Lampedusa, limpidezza di una lingua che riflette la chiarezza interiore del giovane protagonista del romanzo. Mario Arisi passa le sue giornate a raccogliere i resti dei naufragi dei barconi sulle spiagge dell’isola; sono frammenti dispersi, pezzi di storie dimenticate e disperate, scarpe, vestiti, musicassette, fotografie che nella loro ferialità commovente parlano di vite umane, e non di numeri e statistiche da gettare in pasto alla «pancia del Paese» da giornali e tv.

Quegli oggetti sono rifiuti, e rifiutati sono i loro proprietari: per tanti migranti che scampano alla traversata del mare, tanti altri si sono persi per sempre in un Mediterraneo divenuto un immenso cimitero muto. Ma Mario non vuole che il loro ricordo si dissolva come un volto in una vecchia polaroid, e reinventa la memoria di quelle persone di cui non sa nulla, creando, invece che un museo dei morti, un museo dei vivi, una camera degli echi di una vita quotidiana lontanissima. Scrive per ogni oggetto delle didascalie in versi.

Ogni frammento solitario viene così reinvestito di un respiro di esistenza possibile, e la voce che Mario ritrova per i perduti è una voce duplice, in cui un ricordo altrui reimmaginato tramite l’oggetto salvato dal naufragio si intreccia alla sua stessa rabbia, al suo rimpianto. Per un semplice infradito il ragazzo scriverà delle parole gravate da un dolore lancinante, ma su un supporto fragilissimo: «Forse è un po’ lunga, come didascalia, ma l’ho scritta a caratteri piccoli sulla carta velina, poi l’ho arrotolata, l’ho chiusa con un filo di rafia e l’ho appuntata sulla suola dell’infradito. Una storia che ti pesa a quel modo sul cuore devi scriverla per forza su una carta leggera, una carta che non fa resistenza, che rischia di sbriciolarsi appena premi con la matita oppure ti distrai. Una storia così già preme da sola, ti schiaccia».

Luminusa non è solo il diario privato della pietas resistente di un giovane uomo, ma convoca le storie della fuga di molti migranti raccontate da loro in prima persona, tra le contraddizioni e i veleni secolari di un’Italia condannata ad essere sempre culla del compromesso in penombra, patria di innumerevoli «pepponi e doncamilli» a cui manca la speranza, dove il progresso fallito è ormai una questione generazionale e dove la lotta alla mafia significa ormai anche lotta per l’ecologia. E dove per ribellarsi non basta l’urlo.

Oltre all’opera di ricomposizione della memoria portata avanti da Mario, nel romanzo sono tante altre le forme del «prendersi cura». C’è quella vitalità tenera, amorevole ma ostinata, che scorre in una sensibilità estrema per gli odori e i sapori. C’è una convivialità che è scuola di accoglienza, e si traduce in una lettera di una madre eritrea che descrive in maniera toccante la preparazione del piatto per il compleanno del figlio. E c’è un imperterrito nutrire la vita nel cuscus e nello zighinì che cucinano gli amici di Mario o nella pasta che gli isolani offrono ai migranti stremati.

Ma poi la forza di denuncia torna a farsi energica nel cimetière marin del finale, tra i barconi accatastati e gli epitaffi per i migranti ignoti che nel corso degli anni, da spogli ed essenziali, si fanno sempre più narrativi, sempre più elaborati e pieni di partecipazione emotiva. Quella di Mario Arisi è un’opera di restituzione. In fondo il suo lavoro sui versi intende umanizzare quegli epitaffi così scabri, perché le vite dei perduti non restino solo numeri nelle statistiche del governo; è un’opera di laica benedizione, la sua, un dare nome a chi l’ha perso e lodare il nome, e con il nome chi lo porta, perché (come dice uno dei migranti che raccontano a Mario la propria storia) «Dio ci chiama per nome». Un resto vilipeso, un quasi-niente diventa allora un legame che unisce i vivi tra loro e con i morti. E ci fa riconoscere quanto dell’altro vive in noi.

Con un richiamo intenso al concetto di rememory elaborato da Toni Morrison per le storie sepolte dei sessanta milioni di schiavi deportati dall’Africa, Franca Cavagnoli intreccia attenzione e immaginazione grazie a una scrittura di esemplare pacatezza, supremamente contraria all’urlo, alla cecità volontaria e alle semplificazioni interessate o indifferenti che attraversano il dibattito pubblico a proposito dei migranti.
Nella poesia che chiude Composita solvantur di Franco Fortini, di fronte a due ragazzi svogliati che scalciano una bottiglia in un parco, il poeta dice a se stesso, come se lo dicesse a loro: «Proteggete le nostre verità». Sono anche le verità umane dell’accoglienza e del rispetto, quelle che ci impediscono di amare il niente.