Nella categoria dei gufi – se non dei disertori – in questo 2014 che si chiude va certamente inserita l’Istat. Che anche nel penultimo giorno dell’anno è tutt’altro che ottimista sullo stato dell’economia italiana e – ancor di più – del mercato del lavoro. Nella sua «Nota mensile» di dicembre, l’istituto nazionale di statistica «neutralizza» il calo del costo del petrolio – utilizzato invece dal ministro Padoan per prevedere un aumento del Pil dello 0,5 per cento nel 2015 – parlando di «impatto nullo per Italia e Germania», mentre «i segnali positivi per la domanda interna» porterebbero ad «una sostanziale stazionarietà della crescita nel trimestre finale dell’anno»: insomma, il Pil nel quarto trimestre potrebbe far diminuire di un decimale il meno 0,4 per cento ora previsto per il 2014.

Molto peggio va l’occupazione. L’Istat parla di «condizioni del mercato del lavoro» che «rimangono difficili con livelli di occupazione stagnanti e tasso di disoccupazione in crescita». I numeri più neri in campo occupazionale vengono dai disoccupati di lunga durata. Al record del tasso di disoccupazione, che ad ottobre ha toccato quota 13,2 per cento – il governo lo ha motivato con il ritorno sul mercato del lavoro dei molti giovani prima “inattivi” o “scoraggiati”: in realtà il loro numero, sottolinea l’Istat, è aumentato del 6,5 per cento nel 2014 – si unisce infatti «un allungamento dei periodi di disoccupazione: l’incidenza dei disoccupati di lunga durata (quota di persone che cercano lavoro da più di un anno) è salita nell’anno in corso dal 56,9 per cento al 62,3». Per l’istituto nazionale di statistica «questo gruppo di individui, generalmente considerati poco appetibili dalle imprese, costituisce un fattore di freno alla discesa della disoccupazione soprattutto nel Mezzogiorno». È quindi il Sud il tallone d’Achille del paese. Ma il governo Renzi pare non essersene accorto. Così come sembra non voler far niente per aiutare coloro che perdono il lavoro dopo i 50 anni, i più colpiti dalla crisi e quelli con meno possibilità di trovare nuova occupazione.

Nel frattempo si allontana sempre di più la prospettiva per loro della pensione. Il governo ha infatti approvato il decreto sull’adeguamento dell’età pensionabile dovuto all’aumento dell’aspettativa di vita che scatterà però dal primo gennaio 2016. Si tratta di un meccanismo previsto già dalla riforma Monti che il governo Berlusconi nel 2010 fissò a cadenza triennale. La riforma Fornero lo ha accelerato: lo scatto ora arriva ogni due anni. E per la prima volta dal primo gennaio sarà di quattro mesi – rispetto ai 3 decisi dal 2013. Un salto di quattro mesi che si applica a quasi tutte le “quote” maschili, facendo passare il requisito anagrafico per la pensione di vecchiaia dei dipendendenti del settore privato a 66 anni e 7 mesi – era a 66 anni e 3 mesi, sempre a condizione di avere almeno 20 anni di contributi versati. Allo stesso modo aumenta il requisito per la pensione anticipata a prescindere dall’età ma con una decurtazione graduale anagrafica sull’assegno: da 42 anni e sei mesi a 42 anni e dieci mesi. Più penalizzate le donne, a causa del processo di armonizzazione con gli uomini: dal primo gennaio 2016 nel settore privato il requisito anagrafico aumenterà di ben un anno e 10 mesi: da 63 anni e 9 mesi a 65 anni e 7 mesi. Uno schema che porterà nel 2050 a prevedere un’età di pensione a 70 anni uguale per donne e uomini, senza che il governo abbia men che meno preso in considerazione operazioni di flessibilità in uscita – mentre precarizza ancor di più quella in entrata con il Jobs act – nè di aumentare i coeficenti per i precari a lavoro discontinuo che quest’anno si troveranno recapitare dalla nuova Inps targata Tito Boeri la stima di pensione da poche centinaia di euro.

Ieri sul fronte pensioni è arrivata anche la denuncia da parte dello Spi Cgil. A gennaio gli assegni pensionistici saranno più leggeri per restituire allo Stato una parte della rivalutazione ricevuta nel 2014, calcolata inizialmente con un tasso provvisorio dell’1,2% e poi assestatosi in via definitiva all’1,1%: una pensione minima perderà 5,40 euro rispetto a dicembre 2014 mentre una pensione da 1.500 euro perderà 16,30 euro. Tuttavia «lievi aumenti sono previsti per febbraio: la rivalutazione del 2015 porterà 1,50 euro in più sul 2014 per la «minima»», 3 euro per una da 1.500.