Una delle cose che balza maggiormente agli occhi non appena si approfondisce un po’ di più il percorso dell’attuale proposta di riforma dell’istruzione, è la netta discrepanza tra l’idea di scuola contenuta nel Disegno di legge (attualmente in discussione, in seconda lettura, al Senato) e l’idea emersa dalla Consultazione pubblica che avrebbe dovuto (teoricamente) prepararne i contenuti.
La Consultazione ha fatto emergere, in particolar modo tra gli insegnanti, una visione cooperativa e collaborativa del proprio lavoro, nella convinzione diffusa che solo attraverso la partecipazione, la condivisione interdisciplinare e il lavoro di gruppo sia possibile affrontare le attuali sfide dell’educazione e della formazione. Definite dal difficile rapporto tra percorsi di soggettivazione dei giovani, esigenze di professionalizzazione e necessità di formazione alla cittadinanza in un mondo globale.

Dietro questo approccio alla scuola c’è la consapevolezza di contribuire a riannodare, a più livelli, i fili del tessuto socioculturale contemporaneo. Al contrario, il Disegno di legge del governo sposa una visione manageriale e monocratica della scuola, al cui centro non ci sono né la collettività né il cittadino, ma l’individuo isolato (paradosso che investe tanto i docenti quanto i discenti), definito principalmente dal suo rapporto potenziale o reale con il mercato.

L’ultimo lavoro tradotto in Italia del sociologo francese Edgar Morin Insegnare a vivere. Manifesto per cambiare l’educazione (Raffaele Cortina, euro 11), fornisce un contributo per analizzare in prospettiva non solo il conflitto che si sta giocando oggi in Italia attorno all’istruzione, ma anche la tenuta complessiva dell’idea contemporanea di educazione, tanto influenzata dai modelli privatistici ed elitari statunitensi – un contesto nel quale la prossima bolla speculativa destinata a scoppiare sarà proprio quella causata dall’indebitamento delle famiglie di classe media per far studiare i loro figli.

Il libro di Morin, ponendosi come momento di sintesi divulgativa della sua ormai più che decennale riflessione sul rapporto tra scuola e saperi nel mondo contemporaneo, non si concentra tanto sui modelli istituzionali dell’educazione quanto piuttosto sulla relazione educativa che si costruisce tra docenti e discenti, a tutti i livelli del processo formativo. Agli albori della modernità e poi in maniera compiuta nella società industriale, il rapporto educativo era rigidamente gerarchico, essendo concepito il discente come una sorta di barbaro da civilizzare ed elevare attraverso l’opera di un corpo di missionari-insegnanti incaricati non solo di trasmettere conoscenze ma anche una pedagogia nazionale e, in contesti come quello della Francia oppure dell’Italia post-unitaria, laica. Tanto chi era destinato per condizione sociale al lavoro manuale (la maggioranza) quanto coloro i quali sarebbero entrati a far parte della futura classe dirigente (una sparuta minoranza) doveva apprendere il rispetto dell’autorità.
La differenza tra gli uni e gli altri stava nel fatto che, ovviamente, i secondi l’avrebbero anche esercitata, producendo e soprattutto riproducendo una visione totale, sintetica e generale del corpo sociale e della direzione che avrebbe dovuto prendere il suo sviluppo (in fondo questa era l’idea di scuola alla base della riforma Gentile del 1922-23, anche in Italia). Saltato questo modello con l’avvento della scolarizzazione di massa e la società post-industriale (in mezzo c’è il Sessantotto ma non solo), la ricomposizione dei modelli educativi che ci conduce sino ad oggi passa per una sempre più accentuata specializzazione e frammentazione dei saperi nell’ottica – dominante negli Stati Uniti post-reaganiani – che il rapporto educativo deve si essere improntato ad autorevolezza del docente e persuasione del discente, ma per condurlo all’estrema professionalizzazione. Una trasmissione di saperi concepiti – anche quando di tipo umanistico – come puramente tecnici e slegati da tutti gli altri.

La miopia educativa domina l’educazione e l’istruzione del mondo contemporaneo. Per Morin, al contrario, il rapporto educativo che occorrerebbe sviluppare per rispondere in modo adeguato alle sfide del mondo d’oggi (che richiede uno sguardo prospettico e un umanesimo integrale e diffuso per annullare i rischi derivanti da massificazione, fondamentalismo e rischio di una catastrofe ecologica globale), dovrebbe essere centrato sul paradigma della complessità. Parola chiave tanto del dibattito delle scienze sociali almeno dalla fine degli anni Settanta quanto della produzione scientifica dello stesso Morin, il pensiero della complessità consiste nel mettere in evidenze i rapporti e le relazioni tra i vari saperi e fenomeni sia sociali che naturali; mostrando costantemente come tra l’essere cittadini, l’essere soggetti individuali e l’essere parte di un mondo fisico e naturale, vi sia costante e insopprimibile connessione.

Una circolarità che restituisce la profondità di un essere umano liberato dalla miopia della sola specializzazione professionale e tecnica per rimetterlo in collegamento con il senso profondo dell’educazione. Come già sottolineava Rousseau nell’Emilio (1762) lo scopo dell’educazione è insegnare a vivere, cioè a stare in relazione con il mondo delle cose, degli uomini e con il proprio sé.
Accanto ai saperi insegnati in un’ottica complessa, occorre dunque concepire il rapporto educativo come segnato dalla necessità di trasmettere e approfondire con la riflessione e l’auto-riflessione del docente e del discente, attitudini relazionali fondamentali, come la comprensione, l’empatia, l’intelligenza emotiva. Dato che, nelle parole di Morin, un rapporto educativo improntato all’ottica della complessità deve contribuire al raggiungimento di due finalità etico-politiche fondamentali: «stabilire una relazione di controllo reciproco tra la società e gli individui attraverso la democrazia, portare a compimento l’umanità come comunità planetaria».

Un’ottica educativa che recupera una forte carica ideale e prospettica, non riducibile al mito del mercato ma pensata per spingere in avanti lo sviluppo sociale e reinserire la scuola, a pieno titolo, nella società in modo da rifecondarla; in modo latente, esattamente la visione di chi immagina un modello di scuola costruito sulla collaborazione e la partecipazione dei suoi protagonisti e non sullo strapotere di un uomo (o di una donna) solo al comando.
Poiché la preoccupazione che tutti dovremmo avere e che sta in fondo alla base della proposta di Morin è quella espressa dalla domanda provocatoria ma illuminante dello scrittore Jaime Semprun: «a che figli lasceremo il mondo?»