Come mai in Italia non c’è una sinistra dalle dimensioni elettorali e dalla forza attrattiva di Podemos, Linke, Syriza mentre quello spazio è occupato dai 5 Stelle? È un rompicapo a cui applicarsi in attesa del referendum del 4 dicembre. Il «caso italiano» dei decenni passati (la società più politicizzata d’Europa con la più ramificata sinistra politica e sociale) è infatti evaporato del tutto presentando ben altre anomalie e peculiarità.

La data fondamentale di passaggio ravvicinato è il 1989: «socialismo reale» in frantumi, «svolta» del Pci. Si aprì allora una violenta diaspora tra chi intendeva liquidare storia e patrimonio di quella sinistra e chi voleva provare a rinnovarla.

La «carovana» di Achille Occhetto non aveva ancoraggi ideali, se non un generico aprirsi al nuovo con una contemporanea presa di distanza dal socialismo europeo (l’ombra di Craxi).

Il fronte del «no» si divise invece all’interno del Pci tra i promotori di un nuovo partito (Sergio Garavini, Armando Cossutta, Lucio Magri e altri) e chi riteneva possibile rimanere nel «gorgo» (Pietro Ingrao, Aldo Tortorella, Giuseppe Chiarante e per una fase Fausto Bertinotti).

Rifondazione comunista finì per nascere più su una spinta emotiva di resistenza che su un progetto di ripensamento a fondo dell’esperienza comunista bisognosa di novità progettuali, organizzative e di innovative pratiche politiche. La segreteria di Bertinotti cercò di superare l’handicap dell’atto di nascita collocando Rifondazione sulla frontiera dei movimenti.

La rottura col governo Prodi nel 1998 e le successive scissioni (Comunisti unitari, Pdci, Sel) sui temi del governo e della collocazione politica hanno però reso via via impraticabile l’ipotesi di un partito neocomunista non testimoniale. Si è dimostrata inoltre assai fragile l’idea che il comunismo italiano potesse salvarsi indenne dallo tsumani grazie alla sua diversità positiva. A loro volta i movimenti – quello no gobal innanzitutto – non sono riusciti a occupare con una proiezione politica lo spazio lasciato libero (gli indignados e Podemos in Spagna sono l’esempio contrario).

Le «due sinistre» si sono successivamente allontanate ulteriormente, Pds-Ds da una parte e Rifondazione dall’altra. Una chance di rimescolare le carte la ha avuta Sergio Cofferati che tra il 2001-2003 coagulò intorno alla Cgil e a sé, sul tema della difesa dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, di una sinistra dei diritti e del lavoro, una domanda che attraversava sia Rifondazione sia i Ds.

Poteva allora nascere un Partito del lavoro come riaggregazione di una nuova sinistra non più figlia solo della diaspora comunista e come alternativa al progetto di Partito democratico che andava decollando? È probabile. Ed è assai probabile che sarebbe cambiata pure la storia successiva delle due sinistre.

Resta tuttora un mistero la scelta di Cofferati di ghettizzarsi nel ruolo di sindaco a Bologna e di rinunciare perfino a una battaglia politica interna quando il Pd prese forma, riaprendola solo dopo la sua esclusione dalle liste regionali piddine in Liguria.

All’afasia di Rifondazione e al tentativo di Sel di avviare una controtendenza, ha fatto pendant la navigazione perigliosa del Pd voluto da Prodi, D’Alema, Veltroni, Rutelli. Quando la sinistra Ds di Fabio Mussi decise di non aderire al Pd echeggiando un refrain musicale dei Dik Dik («Io mi fermo qui»), le cose erano andate troppo oltre le previsioni di quella componente per modificarne il corso: non restava che tentare la risalita con Sel.

Dopo aver perso per strada Prodi e Rutelli, aver preso atto del «ritiro» di Veltroni, la conquista del Pd da parte di Matteo Renzi ha finito di fare la frittata e ha segnalato – a seconda del punto di osservazione – il fallimento del progetto Pd o il suo inevitabile inveramento. Mentre la sinistra si divideva e tentava riaggregazioni, diventava ancora più grave la crisi della politica italiana e iniziava a germogliare la fenomenologia che ha dato origine al Movimento 5 Stelle: corruzione dilagante, separazione abissale tra istituzioni, attività politica e vita reale, opinione pubblica sempre meno interessata ai partiti, rancore come reazione alle stagioni militanti.

La cosiddetta «antipolitica» ha così iniziato a dilagare senza che le due sinistre adottassero le contromisure.

Riforma della cultura politica e delle sue pratiche, questione morale non sono state ritenute priorità.

Ecco così che il grillismo è diventato capace di tenere insieme spinte trasversali di sinistra e di destra, sollecitazioni ambigue e contraddittorie socialmente unificandole in un generico ma motivato disprezzo per la politica e i partiti oltre che in una sbandierata deideologizzazione di riferimento.

Lo spazio politico ed elettorale che altrove è occupato a sinistra da Podemos, Linke e Syriza in Italia è saldamente presidiato dai 5 Stelle.

Ed è prevedibile che lo sarà anche nel medio periodo con concrete chance di andata al governo e di rifiuto di qualsiasi rapporto unitario con altri soggetti.