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Cosa rende oggi un film di Elio Petri più interessante della media dei film politici italiani dello stesso periodo, di Damiani, Lizzani, Montaldo? Da questo spunto critico nasceva la lettura di Alfredo Rossi nel noto «Castoro» del 1979 su Petri, che oggi trova nuova forza nella riedizione proposta da Mimesis in una forma arricchita da lettere dello stesso Petri e dai ricordi di Goffredo Fofi, Franco Ferrini e Oreste De Fornari (Elio Petri e il cinema politico italiano. La piazza carnevalizzata, pp. 228, euro 20).

Rileggerlo questo testo a più di trent’anni di distanza è anche un’occasione per riflettere in blocco sulla stagione del cinema politico italiano degli anni Settanta.

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È ovvio che per guardare film come l’Indagine, La classe operaia va in paradiso o Todo modo non si può prescindere dal loro contesto storico e culturale («Il contesto», altro film politico italiano, dal romanzo di Sciascia). Gli anni della Democrazia Cristiana e del Partito Comunista, dei due blocchi e della rivolta contro tutto questo. Al netto delle sensibilità dei suoi autori (chi più chi meno catturato nell’orbita culturale del Pci), il cinema d’impegno civile italiano di quel periodo appare uniforme negli approcci e nella sensibilità, e c’è materia per farne un «genere».

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L’oggetto invariabile, e nello stesso tempo inarrivabile, è il «Potere» (quanto risuona in questa parola l’accento gridato del Volonté commissario nell’Indagine sul cittadino?) e il suo esercizio da parte dei suoi custodi (politici) e funzionari (di pubblica sicurezza). Questo potere, che è l’irrappresentabile per eccellenza, è rappresentato cinematograficamente come macchinazione, cioè di una mistificazione della realtà operata da «uomini di potere» al fine di perseguire o conservare il comando. La drammatizzazione del cinema politico è di fatto una quête della verità, lanciata contro gli inganni che costituiscono l’essenza della legittimità del potere costituito: lo schema è quasi universale e, più che l’Indagine, sono paradigmatici film come Io ho paura di Damiani o Z di Costa-Gavras, anche se quest’ultimo è esterno al contesto italiano.

L’essenziale, comunque, è che la dinamica dello svelamento coincide con la messa in crisi del potere costituito attraverso un’operazione di verità. Sotto l’aspetto delle forme, ne risulta un tipo di cinema fondato sulla logica dell’intrigo, dove i personaggi e le situazioni funzionano quando sono tipizzati, senza sfumature. Perciò la drammaturgia del cinema politico è essenzialmente allegorica; proprio perché, da un lato, opera per «maschere» (in un legame genealogico con la commedia dell’arte e, poi, con la commedia all’italiana), dall’altro perché, come ogni allegoria, contiene un significato «ulteriore». Cui si accede per negazione, dialetticamente. Se ciò che si para di fronte è un Potere che mistifica, allora l’operazione politica per eccellenza è la verità, e nient’altro.

Ecco il cuore della questione: il cinema politico italiano, proprio come il contesto sociale e politico della sinistra cui faceva riferimento, si fonda sull’omologia tra rivoluzione e agnizione, si potrebbe dire, cioè sull’idea per cui la critica consista nell’affermazione di una verità nascosta dai potenti e che con il suo disvelamento è in grado di sgretolare gli apparati di potere. Il paradigma dell’allegoria del complotto, insomma che per gli occhi dei contemporanei ha perso ogni efficacia politica, prima ancora che narrativa.

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Ma l’Indagine, Todo modo e gli altri sono irriducibili a questo paradigma. Certo, il quadro di riferimento è il medesimo per tutti, ma il libro di Alfredo Rossi mostra quanto Petri, a differenza di altri cineasti del periodo, tenda a disfare il pensiero politico allegorico. Progressivamente nei suoi film, infatti, emerge una sensibilità che lo distacca dagli schemi rodati del genere. Emerge un interesse sempre più vivo per il rapporto tra il potere e i suoi soggetti, che produce uno scarto fondamentale: il desiderio di potere che si palesa nei personaggi dei film di Petri finisce sempre per realizzarsi in una forma psicotica. Le maschere di Petri ridono, di un riso folle: la sua piazza è «carnevalizzata», come recita uno dei capitoli.

Progressivamente, nel cinema di Petri, si dismette la classica dialettica tra verità delle cose e un «Potere» come oggetto inafferrabile e moloch mistificante, per aprire il terreno all’inchiesta sui rapporti di forza, sulle soggettivazioni e gli effetti psichici del potere, diffrangendo e insieme radicando la critica alle istituzioni, non più apparati calati sugli individui, ma dispositivi operanti nelle microstorie e nelle vite dei singoli, in una riproduzione del potere che è anzitutto soggettiva.

È questa, in una parola, l’attualità del cinema di Petri e insieme la sua irriducibilità al genere del cinema politico degli anni Settanta.