La sessantesima edizione del London Film Festival ha scelto per la sua inaugurazione una storia di diversità e lotte razziali. Basato su eventi realmente accaduti, A United Kingdom di Amma Asante racconta l’amore tra il principe del Botswana (David Oylowo) e una giovane inglese (Rosamunda Pike) che negli anni ’40scandalizzò entrambi i loro paesi. Tra i corridoi di Westminster e i paesaggi dell’allora protettorato inglese, il legame contrastatissimo tra Ruth Williams, impiegata in una compagnia assicurativa, e Seretse Khama, si mescola al declino dell’impero Britannico, alla nascita dell’apartheid, all’ostinazione degli inglesi che si aggrappano al loro status «imperiale» bevendo the con il latte nel caldo torrido africano.

 
I due ragazzi  si incontrano al London Missionary Society dance. La scintilla scatta subito, lui è intelligente, carismatico, bello, ed è l’erede al trono del Bechuanaland, parte dell’impero britannico dal 1880. Dopo un anno Ruth e Sereste si sposano a Londra senza il consenso dei genitori di lei e dello zio di lui, è il 1948, Ruth ora è la futura regina di Bechuanaland. Il matrimonio causa un’ immediato putiferio diplomatico visto che proprio in quell’anno il Sudafrica, confinante col Bechuanaland, mette in atto l’aphartheid, e nella stessa direzione sembra andare il Bechuanaland. L’idea che una donna bianca diventi la possibile regina di una nazione di neri è un simbolo difficile da accettare. Anche il governo britannico si oppone con durezza al matrimonio attraverso duri ricatti politici che prendono di mira il potere del giovane principe.

 
La sceneggiatura di Guy Hibbert utilizza dialoghi tempestivi, che sanno restituire il clima di feroce razzismo del tempo. A Ruth che dichiara di non aver intenzione a rinunciare al matrimonio, il funzionario inglese risponde: «Non ha nessuna decenza? ». Per lui Bechuanaland è un paese straniero, incivile, lontano, una distanza che Asante rende visivamente: dalla grigia e buia Londra, alla luminosa e colorata Africa, paesaggi familiari per la regista britannica, di genitori ghanesi. La sua è un’Africa accogliente, di orizzonti sconfinati e tramonti di grande bellezza.
Asante come aveva già fatto in Belle, anch’esso un film in costume, si avvale della quintessenza del «metodo britannico» per raccontare storie del passato. Usa il melodramma romantico per rompere i confini di classe e investigare sull’identità inglese con la consapevolezza di un’emigrante di seconda generazione che al tempo stesso si interroga sulla propria identità. La sua è una regia sensibile, che si fonda su una scrittura solida e un cast d’eccezione, capace di resituire la complessità di una love story in cui si agitano fantasmi politici.

 
Impossibile non pensare al presente, all’Inghilterra del dopo Brexit e ai toni accesi dei dibattiti politici che continuano a svilupparsi attorno alla questione dei rifugiati. In questa relazione amorosa vengono infatti mostrate le dinamiche politiche dell’impero britannico, il razzismo coloniale e lo sfruttamento dei territori, e i toni politici di chi allora rappresentava il governo britannico in rapporto a quelli attuali non sono cambiati.

 
I personaggi sono assolutamente veri e i fatti realmente accaduti. Quello che rimane dietro la loro ostinazione politica è la loro ottusità e l’ incapacità di vedere che l’impero si stava sbriciolando.
Bello anche il personaggio di Ruth che incarna un po’ tutte quelle donne che avevano vissuto la guerra e sviluppato attraverso il conflitto l’ideologia della pace.
L’interpretazione di Rosamund Pike è tutta centrata sui toni old-british di un personaggio che si tuffa nel flusso della storia e dice a tutto di sì: il matrimonio interazziale, la scelta di vivere in un Paese senza agevolazioni e dal clima insopportabile. Alla fine del film vediamo le foto della coppia vera, la loro storia poco conosciuta, si riempie di significato, dovrebbero essere ricordati come Mandela o Rosa Parker.

 
«Aprire il festival con questo film esprime anche la proposta di riflettere sui disequilibri nell’industria cinematografica d’oggi – ha dichiarato Clare Stuart, il direttore del festival – Abbiamo voluto puntare i riflettori del red carpet sulle star black».